Luca Guadagnino: il desiderio e i generi come simboli identitari del cinema

Per il regista italiano di oggi più amato al mondo, il cinema è un luogo dove sperimentare, dentro al sistema ma sempre fuori dal coro e con uno sguardo personalissimo: vediamo i suoi film

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Esplorare le complessità dell’amore anzi del desiderio, spesso quando è fuori sincrono e ossessivo sembra essere la missione del cinema di Luca Guadagnino.

Un cinema che spesso si è vestito da thriller o da horror semplicemente perché sono i due generi dove i sentimenti predominanti sono la paura e il desiderio inquadrati nella loro dimensione più ferina e istintuale che però il regista cerca di restituire sotto la forma elegante e sinuosa di ambientazioni lussuose: con questo metodo, Luca Guadagnino è riuscito allora ad analizzare il desiderio come motore dell’azione sulla psiche dei personaggi in contesti anticonvenzionali, mostrando come sia il desiderio stesso a dare una forma  un senso compiuto all’essere umano, inquadrando il momento stesso in cui l’ambiente non è solo sfondo ma si fa elemento cardine che amplifica i sentimenti e le ossessioni dei personaggi che ospita.

È quasi consequenziale, a questo punto, che ogni sua storia diventi -portata ai minimi termini- un romanzo di formazione, se è vero che l’adolescenza è il momento in cui si scopre il desiderio e l’identità prende forma.  

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La complessità e quindi la grandezza della composizione cinematografica di Luca Guadagnino sta alla fine nella sua consapevolezza, e nella sua fede incrollabile della forza del cinema, delle sue potenzialità: ed è un po’ tornare alla divisione di Andrè Bazin su chi fa cinema e chi invece crede nel cinema. Guadagnino ci crede, e crede nelle immagini, nelle parole, nei suoni, nella musica.

Guadagnino, il desiderio, l’etica moderna e il thriller sociale: After The Hunt (2025)

Basterebbero i primi cinque minuti a rendere chiaro che After The Hunt, decimo lungometraggio di Luca Guadagnino presentato a Venezia 82, sia un thriller filosofico sul concetto di verità.

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Un concetto che oggi è ridotto a brandelli, polverizzato, nella migliore delle ipotesi sfilacciato, smembrato, vista l’imponente, ridondante importanza che si dà alla verità di ognuno, qualunque sia, e che viene messo a confronto con la domanda più urgente, oggi, quella che fa la protagonista Alma Olsson (Julia Roberts) proprio nell’incipit del film: esiste una morale collettiva che possa prescindere dall’opinione pubblica? Su questo quesito, che diventa pian piano un dilemma, si costruisce pian piano tutto il film che si muove come una “tesi” generale che mette alla prova tutti i personaggi, ad uno ad uno.

La verità diventa allora un orizzonte sempre più lontano e difficile da mettere a fuoco, bersagliato e schiacciato dalle nuove sensibilità postmoderne: le diseguaglianze sociali sotto le diramazioni del linguaggio inclusivo, il consenso nella dimensione sessuale nelle gerarchie di potere, la riscrittura del passato sotto le lente deformante di fenomeni successivi.

In questa ricerca, After The Hunt mostra allora la natura ribollente e magmatica del presente che viviamo, alla luce dei desideri nascosti, sopiti o frustrati di ognuno di noi e dei personaggi in gioco: Alma e Frank (Andrew Garfield) desiderano una cattedra a Yale come simbolo di affermazione professionale, mentre Maggie (Ayo Edebiri) desidera che il suo punto di vista sia conosciuto da tutti e accertato come verità e lei come vittima.

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Al centro del turbine viene presa la stessa Alma, che perde lentamente ogni punto di riferimento tra gli stessi principi etici e pregiudizi su cui aveva costruito non senza fatica la sua realtà privilegiata: ed è con lei che lo spettatore si identifica, perché After The Hunt vuole aprire una discussione sulle derive più rigide dell’etica contemporanea, una sorta di nuova “etica della virtù” (approccio filosofico che si concentra sulla creazione di un buon carattere morale piuttosto che sul rispetto di regole o sulla valutazione delle azioni: invece di chiedersi “cosa devo fare?”, ci si chiede “che tipo di persona dovrei essere?”).

Un capolavoro vestito da thriller sociale, si diceva sopra: e anche filosofico, ma sempre thriller. L’intelligente sapienza di Guadagnino regista sta nel saper rendere totemici sia contenuto che contenitore, con superfici levigate alla perfezione, sguardo estetizzante e mai fine a sé stesso, direzione d’attori calcolata al millimetro (Julia Roberts è probabilmente al ruolo di una vita: qui è davvero spaziale), e soprattutto maneggiando i canoni dei generi con calcolata cura.

Ad esempio, il ticchettio che invade il sonoro nell’incipit, e che torna verso la fine, è solo la punta dell’iceberg di una attenzione estrema alla forma per insinuare sottopelle un senso di attesa e ansia.

Potrebbe essere quindi una summa del cinema di Guadagnino, questo After The Hunt, nella misura in cui mostra tutte le abilità del regista come seduttore del suo pubblico -i movimenti di macchina impetuosi e violenti, la musica come sottofondo necessario a sottolineare l’emozione-, e poi come lui stesso sia prima un intellettuale e poi un autore, quindi come le sue siano immagini al servizio di un’idea e non il contrario.

Guadagnino, il desiderio, l’eterna giovinezza e lo sport: Challangers (2024)

Il tennis come visionaria allegoria del concetto di relazione: è Challengers (su Prime Video), racconto di formazione raccontato come un rave party orgasmico che conduce alla piena consapevolezza che la vita, come la giovinezza e la felicità (o la sua apparenza) siano governate dalla forza di gravità, una spinta verso il basso e il decadimento.

Ma attenzione: nella sceneggiatura di Justin Kuritzkes lo sport a racchette non è una banale metafora per dire che l’amore è una partita con vincitori e vinti, bensì lo spunto per una messinscena impattante e originale, un palinsesto per fare cinema.

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Il tempo che si fa durata, il tempo che si fa gesto, in Challengers: e Guadagnino moltiplica la relazione e lo scambio mentre trasforma il campo in un set visto che nella stessa dimensione c’è una relazione tra campo e fuori campo.

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Si citava sopra Bazìn, e a proposito di teoria del cinema come non vedere in questo gioiello il riflesso di Jules & Jim o la mitologia bertolucciana? In più, il regista gestisce la cronologia del racconto inserendo scarti nel tempo, cambi di prospettiva, intuizioni tecniche, tutto calibrato con rigore estetico mirato ad edificare una struttura coerente ma strabiliante, seducente in tutto e per tutto. E corporea, voluttuosa, fin dalle prima immagini ancor prima dei titoli di testa della Warner Bros -con quei primissimi piani che lanciano al ralenty gocce di sudore in faccia allo spettatore.

Il ralenty gioca poi un ruolo fondamentale in Challengers: perché la passione che accende i corpi dei tre protagonisti non deflagra mai sullo schermo, è sempre o prima o dopo, è al centro di un gioco di attese e rimandi che si muovono sul filo sottile del territorio della metafora, tanto cara al Guadagnino intellettuale.

È quasi un de-potenziamento della forza del desiderio nel momento in cui il desiderio lo si de-costruisce per raccontarlo, per analizzarlo, per renderlo materia teorica nella stessa misura in cui lo spazio/tempo del campo da gioco vive in una dimensione iperrealista e sensoriale fatta di traiettorie impossibili. La vera partita a tre del film è quella dove tutto è finalizzato alla ricerca di un contatto, di un godimento vero e reale, un desiderio finalmente appagato.

Racconto di formazione, racconto di adolescenza, racconto di chi desidera l’eterna giovinezza e quindi ingaggia una lotta contro il tempo, contro la vita.

Guadagnino, il desiderio, la carne e il sangue e l’horror: Bones And All (2022)

Guadagnino ha girato solo” dieci film in ventisei anni (!), e probabilmente questa sua propensione all’accuratezza ha fatto sì che sia difficile individuare un film più “alto” di un altro. Chi per un motivo, chi per un altro, sono tutte opere che si prestano a diventare il “capolavoro preferito” di ognuno – ma è probabilmente sicuro che Bones And All (su Prime Video) avrà sempre un posto particolare nel gradimento, perché lo ha di certo nella percezione del pubblico di Guadagnino come regista.

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Se Chiamami col tuo Nome era stata la miccia che aveva fatto esplodere il fenomeno, Suspiria era stato il lavoro contraddittorio più che controverso che aveva spento i bollori per diversi motivi.

Bones And All, nel 2022, confermava allora la vena autoriale di un regista straordinario, e soprattutto la sua vocazione professionale internazionale, visto che la sua cifra stilistica era per natura senza confini, e il suo sguardo trovava la giusta dimensione quando si posava sugli orizzonti sconfinati della provincia americana. Era insomma nato il Guadagnino regista di cinema internazionale che sostituiva il Guadagnino regista italiano di aspirazioni internazionali: e lo aveva fatto con un film assoluto, carnale eppure teorico, lunghissimo eppure intensissimo, così intimo eppure così politico.

Bones And All è un film che parla di cannibalismo e può gestirsi come opera horror: è l’oralità più estrema, atto di incorporazione dell’oggetto Altro pur di possederlo e prenderne l’amore. L’atto cannibalico, infatti, viene da chi vive ai margini di una società e di un riconoscimento sociale (e famigliare) mancato. E a tutti gli effetti potrebbe sembrare una storia dell’orrore: vero, ma solo ad intendere il genere come quello romantico ottocentesco, quando l’orrore era il territorio da esplorare per ricercare e conquistare l’amore.

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Bones And All è anche territorio di frontiera nella misura in cui il pragmatismo americano (la diciottenne antropofaga percorre l’entroterra statunitense da Est al Midwest) si fonde con l’inclinazione europea all’intellettualizzazione (i cannibali si riconoscono dall’odore, incattiviti dalla necessità bestiale di mordere carne umana ma anche l’anima): è da qua in poi che Guadagnino saprà fondere i due orizzonti, creando quell’impasto particolare -tanto vicino all’approccio e all’attitudine alleniane alla materia narrativa- che lo renderà l’autore immediatamente riconoscibile che è oggi.

Un autore intellettuale, si è detto più volte, prima di tutto per come gestisce il materiale originale: in questo caso il romanzo Fino all’Osso di Camille DeAngelis, che lui fonde sia con il mood dei romanzieri post-minimalisti degli anni Ottanta, sia all’eredità culturale di tanta cultura di fine Ottocento, Conrad in testa, romantica nel momento in cui contrappone la forza della natura e del paesaggio ad un senso epico e tormentato di estraniamento dalla realtà.

Il film è frammentato ed episodico, procede per ellissi e scarti; è diseguale e formalista, ma formidabile quando racconta il processo di crescita che trova compimento dell’incontro con l’Altro (circostanza letteraria ed esistenziale che tornerà dopo tre anni in After The Hunt, nelle parole della professoressa Alma, sul finale del film), e usando il genere come immaginario condiviso prima che come chiave di lettura.

Guadagnino, il Male, il dominio del corpo e la paura: Suspiria (2018)

A Venezia 75 era uno dei film più attesi, oltretutto rifacimento di uno dei titoli più significativi del cinema italiano nel mondo: per questo Suspiria (Prime Video) alla sua uscita ha polarizzato così nettamente i giudizi, e forse solo dopo qualche anno si può rendere giustizia a questo film bellissimo e oscuro.

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Sgomberando il campo fin da subito dagli equivoci: il capostipite di Dario Argento è solo lo spunto per la trama, perché poi quello del 1977 è un capolavoro che si racconta nei colori e nelle interferenze sinestetiche della paura, mentre il suo remake è una riflessione sul Male e sul concetto di dominio attraverso il corpo.

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Probabilmente l’unica cosa che accomuna i due Suspiria è la loro provenienza da due geni visionari, due autori che ragionano con le immagini e sanno che la messa in scena deve raccontare prima che mostrare.

Suspiria di Luca Guadagnino è un cinema sperimentale nel segno di Fassbender, con uno sguardo realmente alieno sul cinema italiano per quelle geografie dei luoghi sempre sensoriali, vissuti attraverso gli occhi dei protagonisti. A spiegarlo basta una scena, quando Sara -la Mia Goth che anni dopo esploderà grazie a Ty West– esce dallo psicoterapeuta e viene spiata: una sequenza fassbenderiana che ha un piano, un movimento, uno sguardo nascosto, fissati in uno spazio che ricrea un cinema dove sono evidenti i segni della decadenza, le frenate della sessualità, l’incubo che si tramuta in delirio.

Per quanto ancora acerbo nello stile e negli orizzonti, mentre ragione sul Male (anticipando la macelleria filosofica di Bones And All) il regista produce una sinfonia mortale frugando nel ventre, nelle ossa, nelle mutazioni del corpo che provengono e portano ai flussi onirici della testa: e filtra l’orrore attraverso il kammerspiel crudele e muliebre di Rainer Werner, con uno sguardo che è estetico e coreografico sovraccaricando la struttura narrativa.

Guadagnino, il desiderio, l’amarcord e il sesso: Chiamami col tuo Nome (2017)

La storia di Call Me By Your Name (su Netflix) si svolge nel 1983, e riprende tutti i sintomi di quell’estate calda: Loredana Bertè, Paris Latino dei Bandolero, le cicale, Rino Gaetano con psi e pci, la politica in Italia è ad un crocevia fondamentale e un certo cinema è morto. Chiamami col tuo Nome è già il quinto film di Guadagnino, nonostante il primo che gli regali un enorme successo di pubblico, ed è un piccolo film con cui opera una ricostruzione per niente archeologica ma molto urgente di un Paese e di un sentire, lucidissimo nella sua percezione del tempo e nella delicatezza di un semplice coming of age da cui però originerà tutto il cinema futuro.

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Chiamami col tuo Nome è un amarcord senza freni o inibizioni che tratta la materia con una naturalezza di rara freschezza; calligrafico ed estetizzante, mostra già una padronanza eccellente dei meccanismi spettatoriali, e con la sceneggiatura di James Ivory esplora una modalità di espressione del desiderio, i sommovimenti del cuore impercettibili all’interno e quel momento in cui una persona scopre quello che si è diventati attraverso il confronto con l’Altro -per questo si chiama l’altro con il proprio nome: il plus viene dalla sua variazione di una semplice messa in scena, ricostruendo un terreno sentimentale, idealizza la sua memoria, celebra i ricordi, le epoche del cuore, inscena il tempo perduto e un passato assoluto.

E racconta, con forza appassionata, la preziosa incoscienza dell’adolescenza, quando si desidera tutto e non si rifiuta nulla, quel “perenne amare i sensi e non pentirsi” (Sandro Penna).

Guadagnino, il desiderio e la ricostruzione del cinema: A Bigger Splash (2015)

Nella -pur breve come abbiamo visto- filmografia di Guadagnino sono diversi i film che tornano come favoriti, ma A Bigger Splash (su Netflix) non figura quasi mai in nessun elenco. Perché all’uscita, un po’ come è successo con Suspiria, era un oggetto fin troppo alieno, troppo radicato in un universo personale come quello di Guadagnino che ancora era ben poco noto al grande pubblico e persino a parte della critica.

Eppure, A Bigger Splash (rifacimento apocrifo de La piscina di Jacques Deray con Alain Delon e Romy Schnider, e la similitudine con il remake di Argento è sempre più forte) mostra già fortissima quella lucidità di sguardo tipica del regista che verrà, uno sguardo che nel 2015 invitava ad un viaggio dentro il cinema, de-costruendone un classico in maniera forse fin troppo intellettualistica.

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Il film, anche rivisto oggi, è contundente: sinuoso e sfuggente tra sentieri e percorsi tortuosi verso geografie (reali e psicologiche) apparentemente inaccessibili, mentre affonda come sempre negli stessi generi che però, qualche anno dopo, proprio guadagnino padroneggerà con più sicurezza.

Noir, melodramma, thriller, il discorso si snoda sempre intorno a questi: ma già il regista era un cineasta a cui non andavano bene i confini e gli steccati, avvicinandosi alle teorie di Stan Brakhage sul senso del percepire, dell’esplorare, dell’avventurarsi sui contenuti, nei contenuti, e insieme sulla decostruzione del linguaggio cinematografico.

A Bigger Splash è insomma già uno studio sulle immagini, sulle proprietà e sulle possibilità della luce, della pellicola come parte del linguaggio cinematografico, quindi da colorare, incollare con altre immagini.

Allora quella stessa piscina noir del film francese diventa superficie riflettente l’Eros (il rapporto sessuale dei protagonisti sul suo bordo) e Thanatos (luogo del decesso), e allora la storia si sviluppa in modo molto più libero secondo logiche più sfuggenti e fatalistiche.

A Bigger Splash è il primo, importante tentativo di Luca Guadagnino di condurre in una dimensione narrativa il discorso teorico sul cinema e sui luoghi: proprio la missione compiuta, in maniera eccezionale, da After The Hunt esattamente dieci anni dopo.

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