Gli album musicali più sottovalutati di sempre | Parte 4 [ASCOLTA]

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Un’altra escursione tra i titoli discografici dimenticati nascosti tra i meandri della storia della musica

Se siete alla ricerca di album musicali da riscoprire, ingiustamente ignorati o sottovalutati e tralasciati dalla storia della musica, siete nel posto giusto. Qui andiamo alla ricerca di titoli, passati e recenti, straordinari e interessanti ma che, per qualche motivo, non hanno ottenuto (e spesso, a stento ottengono oggi) il dovuto riconoscimento.

Ecco quindi il nostro quarto appuntamento (qui le parti uno, due e tre) con la nostra rubrica specificamente dedicata ai lavori in musica da rivalutare. Che si tratti di perle nascoste nelle discografie di artisti celebri, o di capolavori di gruppi ingiustamente poco conosciuti, qui è dove cercheremo di riportare tutto alla luce.

The Moody Blues – Days of Future Passed, 1967

In un periodo nel quale la creatività nel rock raggiunge uno dei suoi apici assoluti, quell’anno d’oro 1967, anche una band come i Moody Blues inizia a dare del suo meglio con questo inspettato capolavoro. Days of Future Passed è un concept album (uno dei primi) basato sulle varie fasi di una giornata e sul suo trascorrere.

Il disco è noto per aprire le porte a quello che di lì a poco verrà chiamato progressive rock. In realtà la complessità delle tracce, a livello tecnico e compositivo, è relativa. Quello che stupisce è l’ambizione dell’intero concept e l’audacia nell’arrangiamento, mescolato ad orchestrazioni classicheggianti suonate per l’occasione dalla London Festival Orchestra.

Siamo nello stesso anno in cui i Beatles impiegano a loro volta un’orchestra per la registrazione di A Day in the Life, e si pensi che qui si va ben oltre. La traccia più famosa dell’album (e di tutto il repertorio dei Moody Blues) rimane Nights in White Satin (parte di The Night); ma ogni canzone merita e la tracklist rivela momenti eccezionalmente validi, interessanti ed eclettici.

The Moody Blues – Days of Future Passed, 1967

Gong – Flying Teapot, 1973

I Gong di David Aellen sono uno dei progetti più incontrollabili dell’intero panorama prog rock; un panorama già di per sé, atipico dadaista e sperimentale come pochi altri nella musica del tempo. Non c’è quindi da stupirsi della natura schizofrenica del prog della band, influenzato dall’iconoclastia anni ’60 e dalla ventata di rinnovamento portata dalla recente rivoluzione culturale.

Flying Teapot, il più celebre album della band, è il primo di una trilogia chiamata Radio Gnome Invisible, comprendente tematiche “spaziali” tipiche di quello stile “space” reso popolare da Ziggy Stardust, ma qui spinto fino all’assurdo. L’album e le tracce in esso contenute fanno parte integrante, in questo senso, di una intera “mitologia” della musica dei Gong.

Una musica che spesso pare non avere senso, o negare ogni parvenza di senso; e, al tempo stesso, ne trova uno preciso, inquadrato negli schemi anarchici tratteggiati dal folle Aellen, da Tim Blake e da Steve Hillage (il quale, però, pare contribuisca al disco solo in minima parte). In ogni caso, un esempio del più indefinibile prog esistente negli anni ’70.

Gong – Flying Teapot, 1973

The Soft Boys – Underwater Moonlight, 1980

Nel 1980, nessuno o quasi nessuno si aspetta di poter ascoltare un disco di punk psichedelico. Eppure, eccolo qui: Underwater Moonlight, scritto e prodotto sotto l’egida del leggendario Robyn Hitchcock, suona proprio così. Non è l’unico, chiaramente: l’impellenza neo-psichedelica ribolle irresistibile sotto la superficie della sempre più popolare new wave.

Ma è proprio Hitchcock, assieme a Julian Cope e ad Andy Partridge, ad ergersi come profeta della nuova psichedelia anni ’80, influenzata dal punk ma con uno sguardo fisso agli anni ’60 e ai gruppi acid rock. Oggi quasi nessuno si ricorda di questo lavoro, ma è davvero sorprendente, risentendolo oggi, constatarne la freschezza e l’abbondanza di idee.

Un peccato, forse, che i Soft Boys si sciolgano poco dopo, nel 1981. Ma solo in parte, perché da quel punto in poi Hitchcock si può emancipare come artista da solista a pieno titolo, con una discografia di tutto rispetto portata avanti per quasi quattro decadi. Ciò nonostante, Underwater Moonlight era e rimane il suo assoluto capolavoro.

The Soft Boys – Underwater Moonlight, 1980

Beck – Midnite Vultures, 1999

Forse il più inventivo album di Beck Hansen in assoluto, questo Midnite Vultures ci restituisce la figura di un cantante che, ritrovatosi celebre all’improvviso, cerca di percorrere ogni strada possibile tranne quella che già l’ha condotto al successo. Il fatto è che Beck è un genio poliedrico, ma alla fine del millennio tutti si ostinano ad ascoltare ancora sempre e solo Loser, e nessuno se ne accorge.

Non gli rimane quindi che dimostrarlo con tutti i mezzi a sua disposizione: ossia, con un album sfaccettato, colmo delle più disparate influenze e quanto più possibile libero da un’impostazione precisa. Beck semplicemente si libera, lasciando sfogo a tutto il suo estro e a tutte le invenzioni che gli vengono in mente.

Il pubblico, naturalmente, non capisce; Midnite Vultures è, commercialmente, un mezzo flop. Per certi versi non potrebbe essere altrimenti e forse è anche un bene: in qualche modo il mancato riscontro ottenuto dal disco ce lo restituisce oggi come un’opera genuina, scevra da logiche commerciali. Un tesoro sepolto da portare alla luce quanto prima.

Beck – Midnite Vultures, 1999

Modest Mouse – The Moon & Antarctica, 2000

L’inizio del millennio è, con ogni probabilità, il momento esatto in cui i Modest Mouse di Isaac Brock raggiungono il perfetto equilibrio nell’esposizione di complessità del loro tipico indie “non di moda”. Uno stile sviluppato con calma e ponderazione, disco dopo disco, che regala una concezione della musica sempre attenta e ispirata.

The Moon & Antarctica è quel tipo di capolavoro inatteso, per certi versi taciuto e di certo fin troppo spesso ignorato, che svela tutte le potenzialità di una band, a sua volta, mai salita alla conquista del mainstream. Brock e compagni re-inventano il rock chitarristico per il nuovo millennio, con una sensibilità e una ironia mai viste prima.

La memoria del rock alternativo del decennio passato è ancora ben viva, ma qualcosa in The Moon & Antarctica comunica chiaramente la necessità di un cambiamento. Il rock, a maggior ragione se indie, deve aprirsi alle più svariate influenze, lasciando spazio per le fragilità e dimenticando gli inni festaioli da classifica. Questo album fa tutto ciò, e anche di più.

Modest Mouse – The Moon & Antarctica, 2000

GUM – Glamorous Damage, 2015

A metà anni ’10 Jay Watson (GUM) è già celebre come componente fondamentale dei Pond e come spalla/turnista dal vivo di Kevin Parker. Il suo progetto da solista, come c’è da aspettarsi, si evolve di conseguenza. Il suo secondo album abbandona volentieri le sonorità psych/classiche del primo, per dedicarsi ad una neo-psichedelia plastica e inventiva.

Watson apprende la lezione del celebre collega produttore, mettendo in pratica le sue proprie invenzioni in sede di registrazione. Ne risulta un suono inventivo, colorato, immaginifico e fortemente lisergico. Altresì, si intravedono gli spasmi del revival anni ’80 che giungerà poco dopo nella completa invasione, all’interno dell’arrangiamento, di tastiere e synth.

GUM si evolve in parallelo all’intera scena musicale, imparando a mescolare le sue esigenze artistiche alla necessità di trovare nelle sue produzioni quel particolare tipo di divertissement unito a competenza sonora; elementi tipici della scena di Perth. Watson ne è uno dei maggiori esponenti, e questo suo titolo in particolare lo mette in risalto come grande nome da riscoprire nella musica dello scorso decennio.