Gli album musicali più sottovalutati di sempre | Parte 2 [ASCOLTA]

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Il secondo appuntamento con la nostra rubrica che vi fa riscoprire i più sottovalutati album delle varie epoche

La storia della musica è piena di album bellissimi, lo sappiamo. Ma che dire di quelli invece meno famosi, meno di successo ma magari, per contro, più interessanti e da riscoprire? Ce ne sono tanti, nascosti magari nelle discografie di artisti celebri, oppure sforzi solitari di cantanti poi falliti.

Vale sempre la pena di mettersi alla ricerca di queste gemme nascoste. Non tanto per vantare una cultura musicale superiore alla media, quanto per cogliere come sia complesso e stratificato il mondo dell’industria musicale. Ci sono i flop, ci sono i successi e ci sono i capolavori da rivalutare. Qui ci occupiamo di questi ultimi, elencandone uno per decennio.

The Pretty Things – S.F. Sorrow, 1968

Disco spesso descritto come la prima, vera rock opera. Forse non lo è, ma ciò non toglie che questo stupendo lavoro dei dimenticati Pretty Things anticipi di un anno il blasonato Tommy degli Who e del resto non vi si discosti neanche troppo, sia stilisticamente che come tematiche.

La storia segue la vita di un personaggio, Sebastian F. Sorrow, che cresce e diventa adulto al volgere del secolo (il ventesimo, ovviamente) finendo a combattere durante la Prima Guerra Mondiale. Un viaggio biografico che è anche un viaggio mentale dalle tragiche conseguenze. Come in The Wall (Pink Floyd, 1979), il protagonista si chiude in una prigione della mente, isolandosi.

Ciò nononstante, le inevitabili influenze dei generi del rock inglese dell’epoca (quello psichedelico soprattutto) rendono un’impressione musicale delle vicende narrate tutt’altro che “triste”. La musica è invece colorata, fulgida di idee e avveniristica nell’approccio concettuale ad ogni canzone. Un disco, insomma, da riscoprire subito.

The Pretty Things – S.F. Sorrow, 1968

Sparks – Kimono My House, 1974

Quei matti di Ron e Russell Mael, gli Sparks (la loro storia è stata raccontata di recente da Edgar Wright) ne hanno fatta di strada. Non solo un album, ma una discografia intera fatta di musiche fuori dal comune, a metà tra l’art rock e gli spasmi neo-dada di certa musica anni ’70, ma ben lontana da ogni radicalismo o politicizzazione.

Anzi, gli Sparks hanno sempre tenuto al centro del loro stile la sperimentazione intesa come urgenza espressiva senza confini. Per questo il loro rock, fuori dagli schemi e imprevedibile in questo piccolo classico del 1974, è anche anticipatore di varie tendenze e portatore di discorsi inaspettati nel mondo musicale coevo.

Persi tra le alte espressioni artistiche della generazione degli anni ’60 e in largo anticipo sull’iconoclastia propria di punk e new wave a fine ’70/’80, con Kimono My House danno vita ad un lavoro bizzarro, in una parola assurdo (ma in senso buono). Non vogliono rivoluzionare, non vogliono satirizzare, non vogliono sconvolgere: vogliono fare musica, ma come nessun altro.

Sparks – Kimono My House, 1974

The Buggles – The Age of Plastic, 1980

Facciamo un esperimento: chiedete ai vostri genitori se si ricordano di Video Killed the Radio Star. Risponderanno subito di sì, forse la canticchieranno, persino. Poi, chiedetegli se si ricordano dell’album The Age of Plastic, o se sanno chi siano Trevor Horn e Geoff Downes. Risponderanno, 9/10, di no.

Questo perché il primo album dei Buggles è un enorme paradosso. Celeberrimo per una hit nota a tutti, quasi ignorato per il resto. Un disco che impone il synthpop come genere e che, produttivamente parlando, dà il la a molta musica anni ’80 seguita negli anni a venire. Horn e Downes, i due Buggles, avranno ruoli fondamentali in questo.

Il disco è una gemma synthpop da riscoprire, che usa l’idea della “plastica” come visione negativa di un mondo asettico e iper-tecnologico, ma ne sfrutta il linguaggio per immaginarlo ed evidenziarne difetti e precarietà dall’interno. I brani sono tutti maturi e riusciti e l’album si regge in piedi, anzi entusiasmando ogni pronto musicofilo, tranquillamente anche senza la hit di cui sopra.

The Buggles – The Age of Plastic, 1980

Slint – Spiderland, 1991

Vi abbiamo già raccontato di questo album, del quale ricorre quest’anno il trentesimo anniversario. Un disco fondamentale per quello che sarebbe poi stato chiamato, o viene chiamato oggi, post-rock. La decostruzione del rock, insomma, il superamento dei cliché legati a questa musica.

Gli Slint sono la band di disadattati e anti-eroi del genere che produce un lavoro senza alcuna ambizione che non sia quella di dare sfogo a infiniti sentimenti e paure, rabbie e frustrazioni. Ne risulta un lavoro armonioso ma anche brutale, emotivo ma arzigogolato nella sua ricercatezza nichilista.

Un gioiello tanto più perché rimasto ineguagliato, rantolo di un gruppo sperduto in quella giungla dell’alternative americano a cavallo tra anni ’80 e ’90, affacciato su un vuoto di senso e di idee da far paura. Paradossalmente, per molti musicisti a venire sarà proprio quest’album a riempire quel vuoto.

Slint – Spiderland, 1991

!!! – Louden Up Now, 2004

A inizio anni ’00 i critici musicali, poco capaci di interpretare secondo i loro canoni classici le intemperanze della nuova generazione post-punk/garage rock revival, non reagiscono esattamente con entusiasmo a questo (perciò) vituperato lavoro dei !!!. Non aiuta il nome del gruppo, difficile anche solo da menzionare (si pronuncia chk chk chk).

Eppure, il graffiante e fastidioso dance punk della band californiana è una delle migliori cose che potrebbero capitare a quel decennio. Guidati dall’eccentrico e sempre arrabbiato Nic Offer, i !!! riprendono il nichilismo di inizio millennio e post-9/11 e lo affastellano in un collage di suoni elettronici e sfoghi punk confusi e rumorosi.

Sembra che vogliano offendere tutti e nessuno insieme, o che vogliano passare per giovani ribelli senza nulla da perdere. Per certi versi, del resto, almeno all’inizio per loro è così. Solo riascoltandolo oggi questo loro lavoro, Louden Up Now, rivela davvero quante idee e intuizioni geniali e groundbreaking siano stati in grado, qui, di tirar fuori.

!!! – Louden Up Now, 2004

Susanne Sundfør – Ten Love Songs, 2015

Susanne Sundfør è una cantautrice norvegese che, in bilico tra produzioni classicheggianti e barocche e produzioni electro-pop raffinate ma non antipatiche alle charts, ha fatto il bello e il cattivo tempo per tutti gli anni ’10. Purtroppo, il grande pubblico internazionale stenta ad accorgersi di lei.

Eppure, questo suo disco, Ten Love Songs, esprime una semplicità autoriale disarmante, alla portata di tutti. Nel mentre svela però un retroterra di influenze ampio, una capacità di scrittura attenta e una sensibilità a tendenze e arrangiamenti state-of-the-art per niente scontata. Insomma, per farla breve: un connubio di tutto ciò che di meglio si può trovare in musica nel 2015.

Descritto così Ten Love Songs può sembrare un album ostico, difficile, complicato. In realtà lo è, ma solo se lo si intende approfondire. Suo pregio (o difetto, a secondo dei punti di vista) è quello di poter essere tranquillamente ascoltato come un disco di musica pop casuale, o quasi. Di certo, uno dei lavori più interessanti dello scorso decennio.

Susanne Sundfør – Ten Love Songs, 2015

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