Slint – Spiderland | RECENSIONE

Un disco che disegna, come il ragno sul soffitto fa con la ragnatela.

Slint
La prima formazione degli Slint live a Madison nel 1989. (Fonte: YouTube / Myrna Mirkoff)
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Felici trent’anni al disco che ha dato un “dopo” alla musica

A quanto lascia intendere il riflesso sulla superficie dell’acqua, il sole è ancora alto nel cielo. Todd non sembra riuscire a rimanere a galla e Britt senza gli occhiali non riesce bene a mettere a fuoco. La faccia di Brian si allunga dietro a quella di Britt, che si è anche messo al centro dell’inquadratura, senza volerlo. David è lontano dagli altri, li sta raggiungendo mentre l’acqua lo tortura, tira fuori il muso duro ma sotto sotto sta ridendo. Will, sull’argine della cava allagata, scatta una foto agli altri quattro.

Circa un anno prima tre dei cinque ragazzi avevano registrato un disco sotto il nome di Slint, prodotto da Steve Albini in persona; Will non c’era, e nemmeno Todd, che suonava il basso. Questo disco si chiama Tweez e suona corroso fino all’osso con l’acido, in pieno stile Albini.

Non era stato facile lavorare con quei ragazzi, neanche per il caro vecchio Steve: avevano in media vent’anni e si divertivano un mondo a fare casini in studio di registrazione. Brian McMahan e Britt Walford suonavano insieme da quando avevano undici anni, riuscivano ad essere troppo stupidi oppure troppo seri, mai una via di mezzo. Walford aveva anche rovesciato una tazza di tè sul mixer.

La foto di Will, però, finisce sulla copertina del secondo disco degli Slint. Finito di registrare alla fine del 1990, il fratello maggiore di McMahan lo sente e lo definisce “spidery”: fatto di linee lunghe, sottili e spigolose come le zampe di un ragno, oppure semplicemente “ragnoso”. Il disco esce il 27 marzo del 1991, trent’anni fa, e si chiama Spiderland.

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No fun in 1980’s Louisville, no fun in Slint’s basement

Gli Slint sono poco più che adolescenti quando tirano fuori il loro secondo e ultimo lavoro. Sono tutti e quattro figli del punk e dei primi accenni di rock “diverso” degli anni Ottanta. Vengono da Louisville, nel Kentucky, una città inzuppata di hardcore punk che non vuole farsi spremere per nessun motivo.

A Louisville non c’è prospettiva per la musica dei gruppi hardcore, in ottemperanza al suo stesso principio di auto-esilio. Che fosse un isolamento consapevole o meno, è un altro discorso; ma era un isolamento profondissimo. Molto più profondo di quello in cui riposava Seattle, dove tutte le occasioni andavano perse. Louisville non aveva occasioni.

Brian McMahan e Britt Walford avevano suonato già negli Squirrel Bait, il primo gruppo hardcore veramente importante della città. Erano anche riusciti ad avvicinarsi a Chicago, il punto di riferimento musicale per il Kentucky, eppure non era bastato. Non essere inquieti a Louisville sembra davvero troppo difficile.

Rimanere bloccati in un luogo che non porta da nessuna parte è una metafora azzeccata dell’adolescenza. Negli Slint, fra gli strumenti, rimbomba l’insicurezza di ognuno di loro. La paura di non riuscire a soddisfare quello che i genitori si aspettano da loro, anche se hanno già vent’anni e dovrebbero cominciare a trovarsi un lavoro. La necessità di esprimere tutta la libertà che hai provato da bambino, che a Louisville non ha nessuna valvola di sfogo: dopo la scuola vai a lavorare, e basta.

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Fare musica per creare il disagio, non per gridarlo: gli Slint non gridano

Il chitarrista David Pajo, in un’intervista al Guardian, dice: “Volevamo mantenere l’aspetto conflittuale dell’hardcore, ma non sbatterlo in faccia [agli ascoltatori, ndr]. Volevamo creare un’atmosfera che mettesse a disagio”. È una strada molto più lunga e storta per arrivare a buttare tutto fuori.

La strada scomoda, la strada che mette a disagio perché ogni passo in più lo fai con l’angoscia accanto. I componenti del gruppo raccontano di ore intere passate a ripetere lo stesso riff; e infatti Spiderland è composto da solo sei brani per una durata di neanche quaranta minuti.

Come album che vuole mettere a disagio, Spiderland prende forma nei contrasti violenti: innanzitutto tra la sintesi estrema dell’hardcore punk e la solitudine al rallentatore dell’angoscia adolescenziale. Poi nell’incontro tra McMahan, che stava cercando di migliorare alla chitarra e il fulminante Pajo che ha dovuto “cercare di peggiorare” per tenere il passo del compagno di band.Nelle schitarrate spigolose che danno una spallata agli arpeggi lisci e puliti.

Andare deliberatamente a sbattere contro l’altro per avvertire il disagio, la scomodità di quell’ambiente. Quella di Pajo non è filosofia, è il racconto della storia corale dietro a questo disco. Sono tutti accalcati da un lato del basement di Walford, e dall’altro lato c’è McMahan che scrive tutti i testi del gruppo. L’ultimo contrasto.

La demo di Good Morning, Captain dal docufilm Breadcrumb Trail di Lance Bags (2014). (Fonte: YouTube / Destroyed)

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