Same as it ever was: 40 anni di Remain in Light dei Talking Heads

Sono 40 le candeline spente quest'oggi dal capolavoro dei Talking Heads. Remain in Light è la summa artistica di una band che ha fatto la storia della musica, e ancora oggi influenza generazioni intere di musicisti, a prescindere dal genere. Quest'oggi abbiamo l'onore e l'onere di raccontarvelo traccia per traccia.

Talking Heads - Remain in Light
Talking Heads - Remain in Light
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Obiettivo n.1: sminuire Byrne

Tutte le più grandi opere sorgono da idee basilari. Nel caso di Remain in Light, l’intento di Byrne e compagni (compreso Brian Eno) era smentire l’idea che il frontman di una band fosse una sorta di burattinaio intransigente che muove i fili dei propri pupazzi a piacimento. Infatti, dai primi tre dischi della band, usciva fuori un ritratto di David Byrne che lo ergeva a massima ed illuminante mente creativa del progetto. Ciò in realtà si potrebbe smentire anche da sé, visto e considerato che l’inclusione di Brian Eno come mente produttiva dei Talking Heads fece fare un salto di qualità notevole alla band,
il cui esordio non rende affatto fede ai fasti futuri.

È infatti noto che sotto l’egida di Tony Bongiovi, produttore assai più noto per pubblicazioni di stampo maggiormente commerciale (Gloria Gaynor, Jimi Hendrix..), il genio di quei 4 ragazzi di New York passò piuttosto in sordina. Ci volle per l’appunto l’ausilio di un Brian Eno appena trentenne per far schizzare i Talking Heads dalle novantesime alle ventesime posizioni delle classifiche americane. Ciò basterebbe a far decadere il monopolio creativo di Byrne, rendendolo per lo meno un duopolio ai cui vertici risiedono per l’appunto Eno e Byrne, che non a caso firmarono anche dischi in coppia. Ma con Remain in Light, l’obiettivo era rendere il più possibile paritario il contributo che ogni membro della band-produttore, turnisti ed ospiti compresi, potesse dare al disco. Un riuscitissimo intento la cui semplicità di base si tramutò in un complesso pluralismo sonoro.

Una suggestiva location tropicale

In seguito al fortunatissimo tour promozionale di Fear of Music, metà del quartetto (Tina Weymouth e Chris Frantz) decise di regalarsi una vacanza per far schiarire le idee. Tina era infatti la prima ad essere convinta del monopolio creativo di Byrne, ed per questo arrivò quasi a lasciare il gruppo. Se così avesse fatto si sarebbe trascinata dietro anche Chris. D’altronde, insieme non erano solo il comparto ritmico della band (rispettivamente basso e batteria), ma anche marito e moglie da quasi 3 anni. Il loro allontanamento avrebbe quindi decretato la fine della band. Fortunatamente, nonostante i notevoli impegni di Byrne (che stava lavorando al disco-collaborazione con Eno) e del quarto “heads” Jerry Harrison (produttore di Nona Hendrix delle Labelle), la band si riunì alle Bahamas.

I 4 erano tornati nella sede dei Compass Point Studios di Nassau, dove circa due anni prima, con More Songs about Buildings and Food, avevano iniziato la loro collaborazione con quel genio visionario di Brian Eno. C’era la volontà di concepire un disco che fosse «il sacrificio dell’ego in onore della cooperazione reciproca». Questo motto di Byrne, oltre che un’esortazione all’ovvio lavoro di squadra, era un notevole tentativo di mettersi in discussione, dando quasi ragione alla collega circa la di lui presunta superiorità. All’inizio scettico circa un terzo lavoro da firmare per i Talking Heads, Eno raggiunse il quartetto qualche settimana più tardi, giusto il tempo che serviva alla band per creare delle demo che potessero convincere il loro produttore di fiducia. Stava nascendo Remain in Light.

Giamaica, Nigeria e ritmi “Dada”

Il punto di partenza delle primigenie sessioni in studio, che rappresenta l’embrione di questo glorioso quarto disco, fu una loro recente canzone ispirata al movimento dadaista. I Zimbra infatti, con la sua poliritmia e i suoi ritmi sincopati, rappresenta un po’ l’anello di congiunzione tra Fear of Music e Remain in Light, come accennato nel nostro articolo dedicato al terzo disco della band. Ad impreziosire le jam session ci fu l’influenza del duo ritmico Sly & Robbie, noto in terra nostrana per aver collaborato con Jovanotti, De Gregori e persino per qualche sigla Mediaset. Conosciuti in Giamaica da Tina e Chris, va a loro il merito di aver indirizzato i due sposini alle sonorità Dub, notevolmente presenti nel sostrato ritmico di Remain in Light. Ad esse si aggiunga l’Afrobeat, anch’esso un “neogenere“. Proprio come la Dub.

È giusto spendere un paio di parole su questo sottogenere del pop dalle origini nigeriane. Elementi della musica tradizionale Yoruba, tipica dell’Africa occidentale, si fondono al Jazz e al Funk creando Qualcosa di completamente diverso (come direbbero i Monty Python), una fonte inesauribile di poliritmia cui non si poteva rinunciare durante la creazione di Remain in Light. I Talking Heads infatti presero in considerazione ed eressero a manifesto musicale il settimo disco di Fela Kuti (compositore nigeriano e padre dell’Afrobeat): Afrodisiac del 1973, capolavoro portato all’attenzione del gruppo da parte di Brian Eno, che ne era un accanito consumatore.

Femi Kuti 2
Fela Kuti fu anche un notevole sostenitore dei diritti civili delle persone di origine africana,
una causa che i Talking Heads abbracciavano a pieno.

«Il non compreso, è il seme del futuro»

Questa frase di David Gans (noto interprete di brani beatlesiani ed amico della band) racchiude perfettamente tutto il senso del disco. Infatti, la prassi di estrarre dalle improvvisazioni della band delle porzioni di materiale sonoro re-interpretabile (definibile come una sorta di “campionamento analogico“) fu un totale azzardo da parte di Eno, Byrne e compagni. In un periodo in cui il proto hip-hop stava comparendo sul panorama musicale, i Talking Heads ne anticiparono i procedimenti compositivi, probabilmente intuendo grazie al loro genio il divenire della produzione discografica. Ancora una volta il merito è attribuibile ad Eno, il quale come abbiamo accennato stava lavorando assieme a Byrne al disco-capolavoro My Life in the Bush of Ghosts, dove sono presenti forme simili di campionamento (in questo caso in una primitiva veste digitale). Ciò che è poco comprensibile, poiché senza precedenti, è il seme di ciò che verrà.

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Da Melody Attack

Il nome che la band diede al disco nelle prime fasi di lavorazione, rende molto bene l’idea che Eno si era fatto circa le modalità di registrazione. Esse avvenivano con un ritmo velocissimo che cozzava con la complessità compositiva, per la quale erano preferibili delle tempistiche più dilatate. Ne risultavano dei veri e propri ”attacchi di melodia” dove la precisione era soppiantata da loop ripetitivi e costanti re-incisioni. Ci vollero due ingegneri del suono per comprendere che era questa la strada seguire. Ciò rallentò di conseguenza la lavorazione. Ad incidere sul rallentamento fu anche il blocco dello scrittore che Byrne stava soffrendo in quel periodo. Si aggiungano poi i non del tutto dissipati malumori interni alla band, che si manifestarono nelle ripetute assenze della coppia Weymouth-Frantz presso lo studio di registrazione a Filadelfia dove il quartetto si era spostato.

Melody Attack non sorgeva sotto i migliori aupici, ma ancora una volta in aiuto della band venne l’antico continente. Trasferitosi per qualche tempo in Africa per combattere i suoi blocchi, Byrne apprese il singolare impulso improvvisativo dei cantanti locali, i quali camuffavano la dimenticanza dei testi con parole nuove uscite di getto, come nel moderno Freestyle. Nel frattempo Jerry Harrison si era convinto che quei ritmi d’oltreoceano non dovevano essere imitati, bensì fusi ed integrati alle sonorità del gruppo, già in parte danzerecce. A Filadelfia si stavano invece svolgendo le sessioni solistische di Adrian Belew, chitarrista dallo stile unico che in seguito sarebbe entrato nei King Crimson. I suoi apporti al disco vennero supervisionati da Eno, che contemporaneamente incideva e re-incideva gli stralci vocali registrati da Byrne in Africa mashando poi insieme il tutto. Melody Attack stava finalmente prendendo corpo.

…a Remain in Light

Risolto il problema di Byrne, venne ingaggiata Nona Hendrix (cui Jerry Harrison aveva fatto da produttore) per registrare i cori. La sua voce si sposava perfettamente con quella del cantante e fa specie pensare che sia la stessa di Lady Marmalade. Definito così il comparto vocale, l’ossatura delle tracce era ormai pronta. Si entrò quindi nella fase di sovraincisione, che vide il contributo trombettistico dell’eclettico Jon Hassel, genio dei fiati famoso anche per la collaborazione con Guccini. A ciò seguì la fase di missaggio, eseguita separatamente da Eno e Byrne in due sedi diverse. A questo punto, mancava solo la copertina. Riprendendo quello che fino ad allora era il titolo del disco, la coppia Weymouth-Frantz creò un collage di aerei da guerra rossi in formazione militare (anche in onore del padre della Weymouth, ex ammiraglio) con la catena montuosa dell’Himalaya sullo sfondo.

Per il retro pensarono semplicemente ad un ritratto del quartetto in stile Let it Be. Ma la voglia di sperimentare non mancò neanche in quel caso, e infatti i due decisero successivamente di cancellare dai ritratti i propri volti e quelli dei compagni, con dei segni di un rosso acceso. Lasciarono in vista solo nasi, bocche ed occhi. Il risultato fu così sorprendente che non solo si decise di farne il fronte della copertina, ma si optò anche per un nuovo nome del disco. Dall’aggressivo Melody Attack, al sottile e sarcastico: Remain in Light. Lo psicanalista Michael A. Brog, interpretò la copertina in questo modo: «Un’immagine disarmante che suggerisce la divisione e la cancellazione dell’identità [ed è al contempo] in contrasto con il titolo: le immagini oscurate dei membri del gruppo, non possono restare alla luce»

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Gli aerei, anziché venir rimossi, furono messi sul retro poiché sembravano
un riferimento alla crisi degli ostaggi in Iran del 1979-1981.

Musica trascendente, forse rivoluzionaria

Così Byrne definì il disco, suggerendo una chiava di lettura al titolo diversa ma non più esatta di quella di Brog (il ”restare in luce” inteso come la suscettibilità alla trascendenza) e al contempo prendendo le distanze dal titolo provvisorio. Il disco infatti può essere a tutti gli effetti considerato una rivoluzione ai danni della melodia, una sorta di bomba sganciata all’interno della sintassi musicale. Un attacco sì, ma non certo melodico. A quarant’anni dall’uscita del disco possiamo senz’altro togliere quel forse senza cadere in errore. Remain in Light è, e rimarrà un disco rivoluzionario, e ce ne accorgiamo analizzandone scrupolosamente le tracce.

Lato A: il più ritmato

Già dal brano d’apertura, Born Under Punches (The Heat Goes On), siamo travolti da un perturbante assalto sonoro che ci proietta in una fitta giungla tropicale, tra riti orgiastici, grida e declamazioni. A disturbare la già spezzata quiete, irrompono anacronistici suoni glitch hop, alternati ad un basso imbizzarrito che va slappando veementemente. Questo turbinio incessante avvolge e stravolge un ritornello del quale si perdono le tracce. Assieme ad esso ci perdiamo in un cortocircuito sonoro tremendamente contagioso. L’opening track ci restituisce una chiara idea delle liriche del disco, contraddistinte da quelle che Brog individua come libere associazioni, trascendenti rispetto ai «limiti del pensiero coerente» (David Gans). Segue Crosseyed And Painless, traccia dal riff corposo e dal drumming regolare che nel suo eclettismo risulta più posata della precedente.

Parti pseudo-rappate, schitarrate affilatissime, incursioni sintetiche della tastiera, svolazzi di Belew, bassi incalzanti ed incontrollabili. Il tutto perfettamente infiocchettato in una confezione squisitamente ballabile che non tradisce gli slanci melodici. La follia funkeggiante non ci abbandona di certo in The Great Curve, traccia che chiude il lato A di questo capolavoro. L’impalcatura vocale della traccia restituisce un intento quasi teatrale, con Byrne ed altri due cori che si rimbalzano frasi freneticamente. Ciò contribuisce ad un immersione totale, all’interno di questa giostra di quasi 6 minuti che non si fa mancare neppure delle sessioni di fiati. A rischio del fuori luogo irrompono rabbiosi i due soli di chitarra, quello centrale e sconnesso di Belew, e quello finale più organizzato di Jerry Harrison. Vi è un’assoluta sensualità nel brano, e ciò si esplicita nella sua frase di punta: «Il mondo si muove sui fianchi di una donna». Nient’altro da aggiungere.

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Weird Guitar Riff Song

Assorbiti in maniera magistrale i trascinanti ritmi danzerecci dell’Afrobeat, i Talking Heads li trasportano in Once In A Lifetime, prima traccia di questo lato B decisamente più etereo. Il quartetto trasfigura la matrice kutiana per farne qualcosa di squisitamente personale. La band descrisse questo processo come una “sorta di trance” in cui la mancanza di un definito giro di accordi rese difficile la creazione del ritornello, per il quale intervenne ancora una volta il mitico Eno. A melodia ottenuta, Jerry Harrison vi innestò un organo Hammond che fa da climax sonoro, riprendendo le note direttamente dal brano dei Velvet Underground: What goes On.

L’origine delle note del basso è invece attribuibile a Chris Frantz, che durante una jam session coinvolgente strillò delle note che la Weymouth trasportò sul suo strumento, suonandole come un carpentiere che batte su un chiodo. E ancora il contributo di Robert Palmer nella sessione ritmica, il testo: «una riflessione pop-artistica sull’età che avanza e sulla bomba a tempo esistenziale che è il consumismo» (Jack Malcolm, The Guardian), il videoclip con la danza schizzata di un Byrne in smoking e sudaticcio che imita tribù antiche ed attacchi epilettici.. Weird Guitar Riff Song (questo il nome provvisorio del brano, affibbiatogli per la sua particolare composizione) è un trattato di socio-antropologia in formato sonoro, e non basterebbero due articoli per esaminarlo del tutto. Quindi è tempo di tornare alla seconda metà del disco.

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David Byrne in una delle pose assunte durante il video di Once in a Lifetime.

Lato B: il più introspettivo

Come accennato, il lato B risulta quello più etereo e sognante. A confonderci però, arriva dopo Once in a Lifetime la splendida Houses in Motion. In effetti, il brano si apre con un Byrne decisamente sommesso, ma che non stenta ad esplodere sguaiatamente nel ritornello. Se in The Great Curve avevamo due chitarre soliste, qui abbiamo due voci. Ma una non ha parole, bensì barriti. È la tromba di Jon Hassel che dona al brano un’aura da National Geographic: c’è un elefante ad assistere a queste nuove danze, e anch’egli vuole dire la sua.

Il resto degli strumenti si accodano, stratificandosi man mano che giunge il finale. A seguire abbiamo Seen And Not Seen, la quale non illude come la precedente, presentandoci un inedito Byrne che declama il brano come fosse un sonnambulo. Questa traccia sfuggente -la più corta del disco- vibra su una sorta di dub ambient che rappresenta una totale cesura col resto dei brani, massivi di ritmi e strumenti. Qui c’è spazio solo per l’economia sintetica di un’elettronica minimale, ma suonata con gli strumenti.

Arriviamo adesso a Listening Wind, penultimo brano del disco. Questa traccia possiede il testo più significativo e significante di tutto Remain in Light. Mojique è un ragazzo arabo stufo della presenza americana sul suo territorio. Decide quindi di ribellarsi contro gli «stranieri [che vivono] in case lussuose» piazzando un ordigno esplosivo. A guidarlo, è il vento. È probabile che Byrne si riferisca ad esso come alla fede, la quale «sta sollevando la sua gente». È lei a «guidarlo nella sua missione». Egli ha la fede nel cuore, ma la polvere nella sua testa, perché ormai non gli resta più nulla. Polvere arida come la strada che sceglie per fermare il nemico. A simboleggiare il vento c’è la chitarra di Belew, che con i suoi svolazzi simula il verso di un gabbiano, incalzato dal sottile dubbing degli altri strumenti.

Come i Joy Division

Remain in Light si conclude con The Overload, tentativo da parte del quartetto di emulare il sound dei promotori del post-punk. La canzone, incredibilmente, fu composta nonostante nessun membro della band avesse mai ascoltato nulla dei Joy Division. i Talking Heads si basarono piuttosto sulle recensioni che descrivevano la musica di Ian curtis e compagni. Il brano interseca i battiti tribali simil-industrial di Harrison e Byrne con con dei soffusi ronzii metallici che si mescolano agli armonici di Belew. La voce di Byrne procede lungo il brano trascinandosi su se stessa, in un ottima interpretazione del timbro vocale curtisiano. L’ending track è probabilmente la massima cesura autoconcessa rispetto ai tribalismi che embrionalmente costituiscono le fondamenta del disco. Ed il suo fascino, è racchiuso proprio nella sua singolarità.

Scelto dal Congresso

La cavalcata si è conclusa. Man mano che il vostro occhio scorreva tra le righe, spero vi siate resi conto della complessità di questo di disco e sopratutto di quanto sia difficile analizzarlo. Avete appena finito di leggere la recensione di un disco che da ormai tre anni è conservato nella National Recording Registry della Biblioteca del Congresso, poiché giudicato “culturalmente, storicamente ed esteticamente significativo”. Un disco che vanta uno dei primi esempi nella storia della musica di artwork digitale, disegnato coi computer dell’epoca e sviluppato niente di meno che dal Massachusetts Institute of Technology, maggiormente noto come MIT.

Vanta collaborazioni infinite, dai membri dei Funkadelic ai turnisti di Albert King, passando per il già citato Robert Palmer. Un disco infine, che nonostante l’età, non smetterà mai di essere moderno. Poiché se la musica di Remain in Light «al tempo aveva da dire qualcosa di nuovo» (D.Byrne), ad oggi, non conosce imitazioni. «è uguale, a com’è sempre stata» (Same as it Ever was).

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