Ci teniamo subito a dirlo: neanche un Noel Gallagher investito di pieni poteri divini potrebbe mai far tornare insieme i The Smiths. A dircelo indirettamente è lo stesso Johnny Marr. Lo storico chitarrista della band inglese, in risposta a un fan su Twitter circa l’argomento reunion, scrive lapidariamente: “Nigel Farage alla chitarra“. Per chi non lo sapesse, Farage è il leader del partito secessionista della Brexit.
Una risposta quindi estremamente ironica, con la quale inoltre Marr si distacca dal pensiero radicale del collega Steven Patrick Morrissey, cantante ed ex frontman dei The Smiths. Dopo aver augurato agli italiani una piacevole visita da parte dell’Isis (in seguito alla sua effrazione compiuta in via del corso un paio di anni fa), Morrissey si è dimostrato anche estremamente rigido dal punto di vista politico, appoggiando partiti di estrema destra e sfoggiando orgogliosamente le loro spille promozionali.
Rilasciarono solo un singolo ma sono famosi più che altro per il futuro successo di alcuni dei membri. C’era Morrissey alla voce, e poi giusto due giovanissimi Billy Duffy e Vincet Reilly alle chitarre. Reilly potrà non dirvi molto (i Durutti Column per quanto fondamentali per il dream pop sono rimasti molto di nicchia) ma Duffy è lo storico ed attuale chitarrista dei The Cult di Ian Astbury. Un nome non da poco.
Conoscenze comuni.
Ma cosa c’entra Duffy con gli Smiths? Ebbene, nel periodo in cui suonava con Morrissey, il chitarrista conosceva anche Marr, all’epoca giornalista. Fu lui a spronarlo all’attività chitarristica. Un contributo fondamentale per la storia della musica. Ma l’incontro ufficiale, quello che generò il nucleo principale dei futuri The Smiths, avvenne tramite un’altra conoscenza comune. Steve Pomfret era un’abile chitarrista di Manchester, conterraneo di Marr e Morrissey.
Da tempo stava cercando di tirar su una band con quello scrittore introverso che adorava Bowie, Wilde e James Dean. Presentargli Marr, non giocò quindi a suo favore. Fra i due scatta subito l’intesa, e Pomfret si sente subito escluso. “Anche se fossi stato il più grande chitarrista del mondo, non ci sarebbe stato posto per me in quella band“, dirà in seguito.
Il terrore e il grande vuoto
Così i due salutano e ringraziano Pomfret e cominciamo a suonare insieme. Si accorgono da subito che bisognava completare la formazione e si adoperano quindi per cercare un batterista, tale Mike Joyce, il quale rimarrà in formazione fino allo scioglimento della band. Destino contrario a quello del primo bassista, mandato via dopo appena un concerto. E Marr se lo ricorda bene quel concerto. “Il terrore e il grande vuoto che c’era in sala, con solo circa 11 persone presenti (…) mentre camminavo sul palco ho sbattuto la mia chitarra (…) È stato un inizio davvero infausto per la mia carriera” . Una qualunque band agli esordi in realtà .
Il rifiuto della factory e la formazione definitiva.
È il 25 gennaio del 1983 quando i The Smiths si esibiscono nel locale gay più in vista di Manchester, stavolta con Andy Rourke al basso, amico d’infanzia di Marr. Dicono di aver adottato questo nome per andar contro alla pomposità dei nomi scelti dalle band new romantic di quel periodo (Duran Duran, Spandau Ballet, Orchestral Manouvres in the Dark). Il nome scelto, il sound così personale, e il loro modo di presentarsi fa breccia sui talent scout presenti nel locale, vogliosi di mettere sotto contratto la band che aveva da poco rifiutato la Factory Records, colei che aveva partorito niente meno che i Joy Division.
Ed era solo il loro secondo concerto. Le major dovettero aspettarne altri 5 per accaparrarsi la band del momento. Il loro settimo concerto per l’appunto avvenne solo in maggio, mese in cui i 4 incidono Hand in Glove per la Rough Trade, ufficialmente il loro primo singolo. L’etichetta responsabile della primissima ondata indie rock terrà i The Smiths sotto la sua ala fino al loro scioglimento, sebbene il loro rapporto con la band non fu del tutto rose e fiori.
Certo negli anni non si erano dimostrati un gruppo semplice. Per la realizazzione di The Smiths, disco di debutto della band, furono necessari mesi e mesi di tentativi e mixtape buttati oltre che più di 6000 sterline di budget. Furono ben due i produttori che si addossarono l’impresa. Al di là degli sforzi, il disco presenta un sottile ma gran bel monito: ”non hai bisogno di tutta questa costruzione, non è necessario tutta questa attrezzatura.È il modo di usare gli utensili di base, come il talento (Morrissey)”.
Riferimenti biblici, letterari e cinematografici, lasciano spazio nel secondo disco a vere e proprie invettive sociali e politiche. Meat is Murder è infatti un sottile attacco al sistema scolastico, alla criminalità giovanile, allo sfruttamento animale e persino all’amminastrazione Thatcher. Musicalmente poi si verifica una svolta coraggiosa che trae origine dal funk e dal rockabilly, e che dimostra inoltre un notevole affiatamento tra Rourke e Marr che anche da soli sorreggono tutta la baracca.
Esce poi nell’86 The Queen is Dead, anche se un po’ tardivamente, a seguito della lunga disputa legale accennata pocanzi. Ormai i 4 ragazzi di Manchester erano padroni dello studio e si sentivano perfettamente a loro agio, tanto da lasciarsi andare ad invettive ben più pungenti: contro la chiesa, ovviamente contro la regina e persino ai danni dell’industria musicale (compresa la Rough Trade), attaccata in modo scanzonato in Frankly, Mr. Shanklye in maniera malinconica con The Boy with the Thorn in His Side.
”Cambiare pelle” ; ”Una direzione diversa”
Se già il terzo disco presentava dei tentativi di allontanamento dallo stile jingle-jangle o dalla compatezza sonora di Meat is Murder, Strangeways, Here We Come ne è il totale distacco. Violini, sax e drum machine sovrastano le incisioni, così come il piano suonato da Morrissey stesso. In questo disco Morrissey si fa canta storie e canta di vicende e personaggi. Senza in alcun modo abbandonare il suo stile romantico e autoreferenziale.
Provate a chiedere a qualunque eclettico chitarrista, cantante disilluso o band britannica in genere. Di sicuro vi citeranno gli Smiths tra le loro maggiori influenze. Dagli Stone Roses agli Oasis, dai Fun ai Radiohead, dagli Arcade Fire alle t.a.T.u. 30 anni di influenze dal punto di vista sonoro, canoro e lirico. Molto semplicemente, senza gli Smiths il britpop anni ’90 non sarebbe mai esistito, e ci saremmo giocati anche la futura svolta di Damon Albarn.
È per questo che è necessario talvolta ricordare che razza di gruppo fossero. 4 giovani ragazzi guidati da un emotivo cronico che rifiutano la maggiore etichetta new wave per non piegarsi ai sistemi che in quei testi così meravigliosamente accompagnati attaccano sfrontatamente, e nel farlo diventano una delle band britanniche più influenti di sempre. Ogni tanto, è giusto ricordare, che la loro è una luce che non si spegne mai.