10 album alla scoperta di Miles Davis [ASCOLTA]

Miles Davis
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Ecco dieci lavori che definiscono l’evoluzione dello stile e della musica di Miles Davis.

Miles Davis viene spesso, e non erroneamente, considerato il più importante musicista jazz mai vissuto. Molti critici non sono d’accordo, vedendo nel suo percorso artistico solo un continuo sforzo di adattarsi alle tendenze più alla moda, scartando di volta in volta i tratti più tradizionali prima tipici della sua musica. Altri critici però, e noi compresi, capiscono la differenza tra “vendersi”, tentare semplicemente di essere alla moda, ed avere invece una mentalità artistica aperta, pronta a mettersi in gioco, a sfidare le convenzioni, tanto tradizionali quanto moderne, per perseguire un’unica visione personale.

Seguendo il percorso evolutivo del grande trombettista, abbiamo tracciato una piccola mappa della sua carriera, che di volta in volta si affaccia a prospettive sempre nuove, aprendo veri universi sonori sempre differenti. Questi sono i nostri dieci album alla scoperta di Miles Davis.

1. Birth of the Cool (1957)

Lo storico Birth of the Cool è il risultato di una serie di sessioni di registrazioni tenutesi nel 1949 e nel 1950. Miles, reduce di fresco dal complesso di Charlie Parker, vuole qui cercare un’emancipazione dallo stile bebop in voga all’epoca, costruendo una musica più strutturalmente complessa. Il trombettista lavora con diversi arrangiatori, quali John Lewis, Gerry Mulligan e soprattutto Gil Evans, per incorporare nelle composizioni le armonizzazioni e le influenze della musica classica, utilizzando per esempio tecniche come la polifonia, l’unisono e il contrappunto. Nelle sessioni suonano diversi nomi importantissimi del jazz di allora, come Lee Konitz, Max Roach, Kenny Clarke, e lo stesso Gerry Mulligan.

Otto delle tracce vengono pubblicate inizialmente solo in formato 78 giri: infatti il formato LP a 33 giri viene introdotto dalla Columbia Records solo nel 1948, e ci mette un po’ a diffondersi. Quasi dieci anni dopo, nel 1957, le tracce vengono pubblicate, assieme ad altre tre, nella compilation che tutti conosciamo e che si chiama Birth of the Cool. L’influenza di questo album è enorme, e segnala, già dal titolo, il fulcro originale dell’idea di cool jazz. Curiosità; Birth of the Cool è l’album preferito di Lisa Simpson (I Simpson, S14E08).

Migliore canzone: Venus de Milo

Miles Davis – Birth of the Cool, 1957

2. ‘Round About Midnight (1957)

Questo è il primo album registrato dal cosiddetto “primo grande quintetto” di Miles Davis: Red Garland (piano), Paul Chambers (basso), Philly Joe Jones (batteria), John Coltrane (sassofono) e ovviamente Miles alla tromba. Si tratta di un album rappresentativo dello stile hard bop, che qui riprende vari standard (tra cui la famosissima Round Midnight di Thelonious Monk) e li aggiorna ad un jazz meno interessato alla velocità e più all’espressività. Sono proprio la semplicità e l’esecuzione diretta a fare di ‘Round About Midnight un piccolo classico nella discografia di Miles Davis.

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Migliore canzone: Dear Old Stockholm

Miles Davis – ‘Round About Midnight, 1957; l’album originale è costituito solo dalle prime sei tracce, le altre sono state aggiunte in edizioni successive.

3. Milestones (1958)

Come suggerisce il titolo, quest’album è una vera e propria pietra miliare, perché introduce il concetto di jazz modale, o modal jazz. Semplicemente, anziché utilizzare le progressioni di accordi, i musicisti utilizzano le diverse scale (o modi) per improvvisare, cosa che concede loro molta libertà espressiva in più. Il primo approccio a questa idea si può udire bene nella title track, Milestones, una delle registrazioni più importanti nella carriera del trombettista. L’album del resto non si fa mancare molti altri momenti brillanti, come l’originale Sid’s Ahead, la splendida Billy Boy, e un altro rendimento di un classico di Thelonious Monk, Straight, No Chaser.

Migliore canzone: Milestones


Miles Davis – Milestones, 1958; l’album originale è costituito solo dalle prime sei tracce, le altre sono state aggiunte in edizioni successive.

4. Kind of Blue (1959)

L’apice assoluto dell’arte di Miles Davis nel suo periodo pre-fusion. Kind of Blue viene spesso considerato, da critici, fan, appassionati e musicologi, come il miglior album jazz mai registrato. Tale nomea non è dovuta solo alla perfezione tecnica e compositiva, che costruisce sul discorso del jazz modale sopra esposto; né al perfetto dialogo tra i diversi strumentisti, che raggiungono qui un’armonia difficilmente riscontrabile, a tali livelli, in un album jazz. Non è tutto qui: si tratta anche dell’atmosfera di questo album, unica, limpida, silenziosa, delicata, notturna. Kind of Blue è l’unico album jazz che suona in questo modo, e rimane un momento unico nella storia della musica.

Migliore canzone: All Blues

Miles Davis – Kind of Blue, 1959

5. Sketches of Spain (1960)

Iniziati gli anni ’60, Miles si appresta a far vagare la propria musica in più direzioni diverse. L’album Sketches of Spain coniuga il jazz orchestrale con la tradizione classica spagnola, e la tromba di Miles Davis, per quanto voce prominente in ogni registrazione, diventa una dei protagonisti di un insieme splendidamente arrangiato dal fedele Gil Evans (vedi sopra). Nell’album vengono reinterpretati due dei più famosi compositori spagnoli di sempre: il secondo movimento del Concierto de Aranjuez (1939) di Joaquín Rodrigo apre il disco; segue Will o’ the Wisp, parte del balletto El amor brujo di Manuel de Falla (1915). Il resto dell’album prosegue su simili intenti di rivisitazione della musica spagnola, con tanto di nacchere, cori di fiati, percussioni incalzanti. in conclusione, forse uno degli album più atipici di Miles Davis; ma forse anche, paradossalmente, uno dei più accessibili.

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Migliore canzone: Will o’ the Wisp

Miles Davis – Sketches of Spain, 1960

6. In a Silent Way (1969)

In a Silent Way viene spesso considerato come uno dei primi album jazz fusion legittimamente definibile come tale. Dopo un decennio di esperimenti, Miles decide infine di iniziare il suo periodo “elettrico”, accogliendo nel proprio ensemble strumenti come il piano elettrico, l’organo, la chitarra elettrica (anche se di chitarristi jazz elettrici ce ne sono già stati) e il basso elettrico, all’epoca poco usati in questa musica. La “fusione” avviene con alcune forme della musica rock, specie il rock progressivo, allora in piena ascesa, mentre le due composizioni che compongono il disco si abbandonano all’improvvisazione più libera. Le due tracce durano venti minuti ciascuna e seguono la forma sonata derivata dalla musica classica: esposizione, sviluppo, ricapitolazione. La prima, Shhh/Peaceful, è scritta da Miles. La seconda, In a Silent Way/It’s About That Time, è scritta dal tastierista Joe Zawinul.

Per dare un’idea dell’enorme influenza che quest’album avrà successivamente, basti elencare la leggendaria formazione: Wayne Shorter, John McLaughlin, Chick Corea, Herbie Hancock, Joe Zawinul, Dave Holland, Tony Williams. Qualcuno direbbe: cos’è, un episodio crossover? No, si tratta davvero della riunione di tutti i musicisti jazz che in seguito avrebbero segnato indelebilmente gli anni ’70 e ’80, portando a pieno sviluppo il discorso della fusion qui iniziato dal loro maestro. Infatti, Shorter e Zawinul fonderanno di lì a poco i Weather Report; Chick Corea i suoi famosi Return to Forever; John McLaughlin la leggendaria Mahavishnu Orchestra. Gli altri nomi citati non saranno da meno. L’influenza di In a Silent Way si misura perciò a partire dalla spinta iniziale che questo disco fornisce ad un intero genere, che poi dominerà tutto il decennio successivo. Una spinta timida, sperimentale, chiaramente audace, e che infatti all’epoca non venne colta come tale.

Migliore canzone: Shhh/Peaceful

Miles Davis – In a Silent Way, 1969; la seconda traccia in realtà si intitola: In a Silent Way/It’s About That Time