Stasera in TV The Experiment: l’esperimento carcerario di Stanford

The Experiment
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Stasera alle 21:30 su Spike (canale 49) The Experiment.

The Experiment – Cercasi cavie umane (Das Experiment) è un film tedesco del 2001 diretto da Oliver Hirschbiegel. Il film ha subito il classico trattamento da remake americano nel 2010 mantenendo il titolo The Experiment. Entrambe le pellicole trattano la stessa storia, una storia vera e legata ad un esperimento di psicologia sociale. Un esperimento tenuto nel carcere di Stanford nel 1971, dallo psicologo statunitense Philip Zimbardo.

I film sono stati entrambi apprezzati, non tanto per il loro valore cinematografico, ma per aver riproposto un tema delicato e scottante come quello dell’esperimento di Zimbardo. L’obiettivo che l’esperimento si poneva era quello di indagare il comportamento delle persone in base al proprio gruppo di appartenenza.

Qual’era l’ambiente creato per l’esperimento?

In un edificio dell’università di Stanford venne creata una finta prigione, dove 24 studenti selezionati vennero divisi tra guardie e detenuti. In cambio della partecipazione alle cavie veniva fornito un premio in denaro. I due gruppi vennero suddivisi arbitrariamente, senza alcuna differenza. I prigionieri dovevano rimanere 24 ore su 24 nella prigione, fino al termine dell’esperimento, mentre le guardie lavoravano a gruppi di 3 persone per dei turni della durata di 8 ore, con la possibilità di tornare a casa nelle pause tra i turni. Tutto ciò veniva seguito tramite delle telecamere e dei microfoni nascosti dai ricercatori, interessati al comportamento dei soggetti.

L’esperimento che doveva durare due settimane non arrivò alla fine della prima. I soggetti così nella media e senza alcun disturbo comportamentale iniziarono ad accusare dei comportamenti devianti. Già al secondo giorno i detenuti per protestare delle loro condizioni si strapparono le magliette e si rinchiusero nelle celle, con le guardie che iniziarono ad avere degli atteggiamenti violenti sia a livello fisico che psicologico. I carcerati  furono sottoposti a vere e proprie umiliazioni: cantare canzoncine, defecare in secchi che non potevano vuotare, pulire a mani nude le latrine e altro ancora. Dopo che un tentativo di evasione dei detenuti venne sventato, Zimbardo dovette chiuedere l’esperimento. La causa principale? Il cedimento psicologico di alcuni soggetti che iniziavano a distaccarsi dalla realtà.

Alcuni si ribellarono inutilmente, altri ebbero delle crisi emotive, ma alcuni provarono ad affrontare la situazione diventando dei prigionieri modello. Il loro unico obiettivo era assecondare le guardie per non subire ulteriori ritorsioni. Uno di loro venne addirittura soprannominato ‘Sarge’ per il suo impeccabile modo di seguire gli ordini assegnatigli, come un vero militare.

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L’effetto Lucifero

L’esperimento portò Zimbardo a concludere che il ruolo istituzionale assunto dalle persone nel contesto del carcere, le portò ad interagire con l’altro gruppo, che incarnava un altro ruolo nell’istituzione, utilizzando le norme e le regole dell’istituzione come unico valore a cui il proprio comportamento doveva sottostare. Sentendosi parte di un sistema e non identificati dalla propria persona, i soggetti sentivano meno senso di colpa, vergogna, paura. Le azioni intraprese del gruppo diventano il principale oggetto di identificazione dell’individuo. Si sente parte del gruppo e delle azioni che questo intraprende. Questo venne definito da Zimbardo come effetto Lucifero; ovvero un comportamento non regolato come nella normalità da paura, vergogna, pietà e via dicendo, ma dall’ambiente e dall’istituzione. Le regole e la loro cieca osservanza portano all’uniformarsi al gruppo a scapito del proprio comportamento individuale.

Questi studi vennero in seguito associati alle torture subite dai prigionieri nel carcere di Abu Ghraib, da parte dei militari statunitensi. Di seguito trovate invece il documentario  della BBC che racconta l’esperimento, che consigliamo di guardare a ridosso del film.

Peccato che lo studio era solo una grande bugia di Zimbardo.

Lo studio portò molte polemiche con sé, in primis perchè i risultati vennero condivisi sul New York Times Magazine e non su una rivista scientifica. Molti studiosi criticarono Zimbardo per i suoi metodi definendo i risultati dallo scarso valore scientifico e l’esperimento più vicino ad una performance artistica.

Poi nel 2001 due professori di psicologia britannici, il professor Alex Haslam e il professor Steve Reicher, provarono a riproporre l’esperimento. I secondini non accettarono completamente il loro ruolo arrivando addirittura, alcuni di loro, a schierarsi con i prigionieri. Le conclusioni tratte dai due professori furono completamente differenti: per creare una tirannia la condizione necessaria è che si sviluppi una leadership forte, indirizzata con un progetto autoritario verso la risoluzione di problemi concreti. Secondo i professori Zimbardo influenzò i partecipanti diventando il loro leader e indicandogli delle situazioni da seguire.

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Nel 2005 Carlo Prescott, un ex detenuto che aveva lavorato con Zimbardo rivelò una triste verità: i modi che i securini avevano usato per tormentare i prigionieri erano presi dalle sue esperienze, ma soprattutto erano state suggerite alle guardie dai ricercatori, non inventate dai partecipanti all’esperimento. Ai secondini venne suggerito di comportarsi in modo sadico da un assistente di Zimbardo, spinto a farlo dalla considerazione di Zimbardo stesso, secondo il quale i secondini non si sarebbero mai coportati da tali senza una spinta. Lo stesso assistente durante l’esperimento spinse i secondini meno duri ad essere più severi. Il loro comportamento non è mai stato spontaneo e dunque non dettato unicamente dalla situazione come Zimbardo indicava.

A parlare di questa storia è stato principalmente il libro Histoire d’un mensonge: enquête sur l’expérience de Stanford del ricercatore di scienze sociali Thibault Le Texier. Nelle sue indagini trovò anche la trascrizione di una discussione tra Zimbardo e i suoi collaboratori pochi giorni dopo l’inizio dell’esperimento. Nel documento Zimbardo affermava a due dei prigionieri che non avrebbero potuto lasciare il luogo se non per cause mediche. Ai suoi collaboratori però disse: “Penso che credano davvero di non poter uscire“.

Ma la più schiacciante delle prove è quella portata da Dave Eshelman, uno dei finti secondini dell’esperimento. Nel 2011, intervistato dal periodico degli ex allievi di Stanford per il quarantesimo anniversario dell’esperimento, raccontò che il suo comportamento era tutto tranne che casuale:

«Fu programmato. Partecipai con un piano ben definito in testa, quello di provare a forzare la situazione, fare in modo che succedesse qualcosa, in modo che i ricercatori avessero qualcosa su cui lavorare. […] Al college e alle superiori partecipavo a tutte le recite teatrali. Si trattava di qualcosa a cui ero molto abituato: immedesimarsi in un’altra personalità prima di entrare sul palcoscenico».

La vera storia di The Experiment è che l’esperimento non è mai stato reale come raccontato nei suoi termini. Quello che rimane è la terribile idea di spingere qualcuno in una situazione simile.

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Fonte: Il post