Arancia Meccanica: l’analisi dell’opera fra libro e film

arancia meccanica
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Il 25 febbraio 1917 nasceva a Manchester Anthony Burgess, all’anagrafe John Burgess Wilson, scrittore che è riuscito a imprimere il suo nome nella storia del cinema e che in occasione del centenario dalla sua nascita noi della Scimmia vogliamo ricordare.

Era il 1962 quando uscì nelle librerie quella che diventò, a livello internazionale, la sua opera più famosa. In Italia fu pubblicata col titolo di Un’arancia ad orologeria, ma questo venne presto cambiato nelle edizioni successive per conformarsi alla sua trasposizione cinematografica, divenuta in breve tempo un celeberrimo cult: il libro in questione è quello che noi conosciamo oggi come Arancia Meccanica. Il film omonimo fu prodotto nove anni più tardi, e vide dietro la macchina da presa uno dei più grandi registi della storia del cinema: ovviamente, per quei pochi che non lo sapessero, stiamo parlando di Stanley Kubrick e della sua “Arancia Meccanica” (in onda stasera alle 21 su Iris).

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La storia di Arancia Meccanica è pressoché la stessa nelle sue trasposizioni, eppure entrambe differiscono l’una dall’altra nella rappresentazione della tematica principale.
In un prossimo futuro, Alex è un giovane ragazzo che trascorre le notti insieme ai suoi drughi, Pete, Georgie e Dim, coi quali vive appieno il concetto di ultra-violenza, “che non deve essere interpretata come una violenza fisica eccezionale, ma come uno stato mentale governato dall’idea di violenza. L’ultra-violenza è infatti il risultato di una scelta, la manifestazione di una libertà.” (A.Burgess, 1974)
E proprio il concetto di libertà diventa il fulcro dell’intera opera. Dopo un’accidentale uccisione, infatti, Alex finisce in galera, e per uscirne al più presto si offre come volontario per “La cura Ludovico”, esperimento il cui primo scopo è rimuovere dall’uomo qualsiasi propensione alla violenza. Questa cura però si rivela essere il vero male perpetrato nel dramma, peggiore di tutti gli stupri, denigrazioni o pestaggi attuati dal protagonista e i suoi compagni: Alex si vedrà quindi privato di qualsiasi capacità di reagire e, pertanto, di qualsiasi libertà di scelta. Da antico carnefice egli diventerà involontaria ed innocua vittima, così come le sue antiche vittime si trasformeranno in perfidi carnefici contro cui egli non potrà veramente confrontarsi.

E’ necessario che l’uomo possa scegliere tra il bene e il male, anche nel caso in cui egli scelga il male. Privarlo di questa possibilità di scelta significherebbe renderlo qualcosa di inferiore all’umano: appunto, un’arancia meccanica.” (S. Kubrick, 1972)

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Arancia meccanica è certamente un’opera ambigua, che dapprima sembra un inno alla violenza, ma che diventa poi una sua cruda denuncia senza censure. In quest’ottica, il percorso di vita che Alex affronta è descritto e percepito dai suoi autori in maniera diversa eppure complementare l’una all’altra. Elemento fondamentale del libro (anche ai fini della trama) – ma a tratti solo accennato nel film di Kubrick – è il Nasdat, un dialetto che combina inglese e russo per formare un gergo molto underground, caotico e giovanile: esso riesce a mitigare l’impatto della violenza nel lettore, favorendone l’impersonificazione col protagonista, già narratore in prima persona delle proprie vicende.
In tal modo tutti gli atti spregevoli che Alex compie sembrano quasi un gioco, il semplice passatempo disturbato di un giovane annoiato.
Questa ambivalente rappresentazione del personaggio viene confermata nell’ultimo capitolo del libro, dove il lettore incontra un Alex che, guarito dalla repulsione per la violenza, è diventato un uomo maturo, annoiato dal suo stile di vita così sfrenato e senza senso, e che progetta di avere moglie e figli con un lavoro onesto a dargli i soldi per sopravvivere.  In un’intervista del ’74 a Robert Louit, Burgess spiega così la sua scelta:

Per me è la fine più giusta, in quanto desidero mostrare che la violenza, questa esplosione di energia che non trova uno sfogo positivo e si consuma in brutalità gratuite, non è che una fase dello sviluppo dell’individuo.

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La visione comportamentale di Alex sostenuta da Kubrick è invece molto più drastica e cupa: egli porta alla luce un uomo conscio della sua ambivalenza, privo di quella sfumatura giocosa caratteristica della sua controparte letteraria, arricchito dalla vasta cultura musicale che fa da colonna sonora all’intera pellicola e intento a perpetrare la malvagità fino alla fine. Come affermò lo stesso Kubrick:

[la sorta di fascinazione che il protagonista esercita sul pubblico] penso sia da attribuirsi al fatto che Alex, a livello onirico e simbolico, che è quello che del film riesce a colpire, rappresenta l’inconscio. L’inconscio non ha coscienza: nel proprio inconscio, ciascuno di noi uccide e violenta. Chi ama il film avverte questa sorta di identificazione; l’ostilità di chi lo detesta nasce dall’incapacità di accettare chi si è davvero.

Per raggiungere questo scopo, il regista colloca l’Alex della sua pellicola in un futuro concretamente più vicino al presente di quanto non fosse la visione di Burgess, al contempo arricchendo le scene con forti contrasti estetici, proprio per rimarcare la discordanza tra inconscio e consapevolezza di cui il personaggio è portatore: le donne perfette del Korova Milk Bar diventano pertanto l’arredo del luogo dove si cova la violenza, così come l’affresco del teatro abbandonato fa da sfondo alla lotta tra bande, mentre la bella canzone “Singin’ in the rain” del famosissimo Cantando sotto la pioggia si trasforma nel sottofondo di stupro di gruppo. Il tutto raggiunge il suo apice proprio nel finale, dove un compiaciuto Alex riacquisisce il suo amore per la violenza, ben lontano da quella redenzione presente nel libro.

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Questi elementi concorrono quindi a spiegare il differente approccio dei due autori nel raggiungere uno stesso ideale. Leggere Arancia Meccanica e vedere Arancia Meccanica diventa così un’esperienza completamente diversa, che fa emergere i due lavori come indipendenti eppure strettamente collegati tra loro, in cui tuttavia permane fortemente il messaggio più profondo dell’intera opera.
La mia parabola e quella di Kubrick vogliono affermare che è preferibile un mondo di violenza assunta scientemente – scelta come atto volontario – a un mondo condizionato, programmato per essere buono o inoffensivo.
Nel loro personalissimo modo, Burgess e Kubrick danno quindi la loro idea sulla società, sperando che questa non renda un ragazzo qualunque, buono o malvagio che sia, alla pari di un’arancia meccanica, umana dentro, meccanizzata fuori.
Ciò che ne esce fuori, alla fine, sono due capolavori dell’arte moderna.