The Bear: l’altra faccia della cucina in TV [ANALISI]

The Bear è divenuta rapidamente una delle serie più apprezzate di questo 2022. Ecco dunque la nostra analisi di un successo meritato

the bear
Condividi l'articolo

A cura di Matteo Saraceno

Da diversi anni a questa parte i nostri schermi sono ormai invasi da chef stellati e orde di aspiranti tali che, a suon di reality, intasano una fetta significativa dei nostri palinsesti. Master chef, 4 Ristoranti, Cucine da incubo, La prova del cuoco, sono solo alcuni dei programmi di grandissimo successo che da tempo sono entrati nelle nostre case. Grazie a loro abbiamo imparato a familiarizzare col gergo culinario mettendoci in competizione con i malcapitati correnti. Ammettiamolo, tutti noi almeno una volta abbiamo detto:” Io cucino molto meglio di quello” per sentirci rispondere dalla mamma, dal marito, dalla moglie, dal cane: ”Ma certo, dovresti partecipare a un programma di cucina.” The Bear, la serie FX on HULU arrivata su Disney+ lo scorso 5 ottobre, non c’entra niente con tutto questo.

Cioè, intendiamoci bene: è quasi interamente girata nella cucina di una bettola e le lunghe carrellate concesse alla preparazione delle pietanze sono una roba che metterebbe a dura prova la volontà ferrea di digiunare di chiunque, anche di Marco Pannella, questo è vero. Ma l’aspetto culinario, in questo caso, non è testo: è contesto.

Cast e Trama di The Bear

image 3

The Bear è ambientata nei sobborghi di Chicago, ha Jeremy Allen White come protagonista e racconta di persone a un passo dall’abisso che però, nella loro disfunzionalità, riescono sempre miracolosamente a trovare una quadra per risalire la china. E no, non è Shaneless. Deve averci ragionato bene Christopher Storer prima di affidare il ruolo principale a un attore che tutti identificano come Lip di Shameless.

Anche perché Carmy, questo il nome di White in The Bear, ha molto in comune con il secondogenito di casa Gallagher: un passato di dipendenza dall’alcol da cui prova a venire fuori a fatica; una mente brillante che lo porta a essere sopra la media e una famiglia che, a definirla incasinata, le si fa un complimento. Carmy è lo chef di uno dei ristoranti stellati più importanti al mondo. Un’eccellenza che ha raggiunto dopo anni e anni di sacrifici e impegno. Il suo talento è riconosciuto da tutti gli addetti ai lavori ma non dalla sua famiglia.

Suo fratello maggiore (Jon Bernthal: The Punisher, The Walking Dead, Daredevil) è il proprietario di The Original Beef of Chicagoland, una paninoteca di quart’ordine, puzzolente e disorganizzata, che va avanti anche grazie a un ristretto zoccolo duro di clienti. All’interno della cucina del Beef Carmy muove i primi passi ma dura poco perché il suo grande talento cozza con la mediocrità e le insicurezze di suo fratello maggiore che, un po’ per punirlo e un po’ per salvarlo, lo caccia via. Così Carmy lascia Chicago, si fa strada a suon di cipolle sbucciate e turni da 20 ore e arriva in vetta. Peccato che suo fratello si suicidi lasciandogli in eredità il Beef. A Carmy non resta altro dunque che fare i bagagli e torna a Chicago per risollevare le sorti del ristorante di famiglia

Quando arriva trova una situazione disastrata: suo “cugino” Richie (Ebon Moss-Bachrach: Girls, The Last Ship, The Punisher) prova a tenere le redini ma proprio non è capace. Il resto della brigata è pure peggio, ma è piena di potenziale. A loro si aggiunge Sydney (Ayo Edebiri), che si fa assumere in quella bettola nonostante il curriculum di tutto rispetto pur di poter imparare dal numero 1: Carmy. Da questa armata Brancaleone il capo chef riparte per ridare lustro al Beef e uscire dalla montagna di debiti in cui li ha lasciati suo fratello.

Cinema e cibo in tv.

image 4

La serialità raramente si era avvicinata a quello della ristorazione, un mondo considerato perfetto per la narrazione unscripted ma troppo statico per la narrazione scripted. C’era già stato qualche tentativo come Julie&Julia di Nora Ephron e la recente miniserie Julia di Daniel Goldfarb, entrambi sulla storia di Julia Child; o il nostrano La cena perfetta di Minnella, ma niente che avesse mai veramente sparigliato le carte. E allora: perché The Bear è piaciuta così tanto e a un pubblico così trasversale? Bella domanda.

L’altra America.

Molto probabilmente il faccione di Lip, messo lì in primo piano per gran parte del tempo, ha sicuramente chiamato a raccolta i numerosi fan di Shameless. Ma un buon casting non è abbastanza per giustificare il clamore intorno a una serie che da molti è considerata la serie dell’anno. La durata relativamente breve (mezz’ora a episodio) in un mondo in cui la proposta è debordante e le ore del giorno per fruirne sempre 24 restano, sicuramente invoglia. Otto episodi, mezz’ora l’uno: se po’ fa. Tutte concause però.

Le vere ragioni del successo di The Bear risiedono probabilmente nel fatto che al centro della storia c’è l’altro lato dell’America, quello che ha perso e ora prova a rimettersi in carreggiata. La scrittura sagace e una recitazione che lavora tanto in sottrazione, restituiscono allo spettatore il senso di vuoto e di angoscia dei protagonisti che trovano una ragione per andare avanti nel ristorante. La rinascita di questa tavola calda è la loro rinascita. L’empatia che lo spettatore prova per lo chef e per il resto della banda, lo tiene incollato alla tv. Tutti speriamo che Carmy si rialzi a ogni caduta, proprio come speravamo che lo facesse Lip.

image 5

Una seconda stagione è già stata ordinata lo scorso 14 luglio e dovrebbe essere prevista per l’anno venturo. Visto che Natale è ormai alle porte, l’augurio grande è che col tempo, un’audience dal palato sempre più raffinato, potrebbe regalarci palinsesti con meno reality e più prodotti alla The Bear.

Che ne pensate? Vi è piaciuta The Bear?

Seguiteci su LaScimmiaPensa