Siccità | Recensione del film di Paolo Virzì

Siccità
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Siccità è un film del 2022 di Paolo Virzì. Già presentato fuori concorso alla 79ma edizione della Mostra del cinema di Venezia, il film è nelle sale italiane dal 29 settembre 2022.

Trama

Roma vive un countdown apocalittico: solo una manciata di giorni separano la popolazione dall’interruzione definitiva dell’erogazione di acqua. La città infatti non è bagnata da piogge ormai da mesi, e la grave carestia idrica inasprisce la guerriglia urbana. Sullo sfondo si muoverà un coro di anti-eroi, che nel far fronte alla crisi ci mostrerà i diversi volti della tragedia.

Cast

  • Silvio Orlando: Antonio
  • Valerio Mastandrea: Loris
  • Elena Lietti: Mila
  • Tommaso Ragno: Alfredo
  • Claudia Pandolfi: Sara
  • Vinicio Marchioni: Luca
  • Monica Bellucci: Valentina
  • Diego Ribon: Professor Del Vecchio
  • Max Tortora: Alberto Jacolucci
  • Emanuela Fanelli: Raffaella Zarate
  • Gabriel Montesi: Valerio
  • Sara Serraiocco: Giulia
  • Emma Fasano: Martina
  • Emanuele Maria Di Stefano: Sebastiano
  • Malich Cissé: Sembene
  • Paola Tiziana Cruciani: la madre di Loris
  • Gianni Di Gregorio: il padre di Loris
  • Andrea Renzi: il Presidente
  • Giovanni Franzoni: Filippo
  • Federico D’Ovidio: Lino
  • Lorenzo Gioielli: Corrado Zarate
  • Sara Lazzaro: Rose
  • Edoardo Purgatori: Pierluigi
  • Federico Maria Sardelli: direttore d’orchestra

Trailer

Siccità: recensione

Resta un curioso esercizio creativo reimmaginare le scene iniziali di Notti Magiche traslate su Siccità. Niente più di un gioco dalle dominanti ocra, in cui far cadere l’automobile di Leandro Saponaro nel letto prosciugato del fiume. Da una parte il Tevere che annega i segreti della stagione dei grandi maestri del cinema italiano parafrasando i drammi dell’industria contemporanea. Dall’altro lato c’è la Roma di un futuro passato, in cui invece il Tevere in secca svela i resti delle grandiosità neroniane.

Siccità sembra allora un film al limite della divinazione che sfida il senso del tempo. Le prime estreme conseguenze degli sconvolgimenti climatici hanno creato tragedie umane e ambientali negli scorsi mesi che ci hanno lasciati spesso inermi davanti catastrofi sempre più annunciate. Resterebbe piuttosto semplice quindi fermarsi alla superficie di un’opera che parte dalla contemporaneità e dalla predizione.

Provando però a percorrere l’intreccio che si innesca da questo punto di partenza si passa rapidamente dal macrocosmo di una Roma arida, sull’orlo della guerriglia urbana, al microcosmo di logori interni in cui proliferano colonie di blatte. Forse in questo sottobosco brutto, sporco e cattivo risiede più di un significato del film, rendendo evidente che forse a Virzì dello sconvolgimento climatico interessa molto relativamente.

Siccità, coralità, umanità

Il pretesto distopico è quindi la miccia di un dramma corale, brulicante come le colonie di insetti che infestano la riarsa borgata romana. Nella solitudine della tragedia siamo uniti, ed è questo che rende umani: non è questa la risposta che Siccità fornisce al dilemma della sofferenza. Piuttosto Virzì spiraleggia verso una disumanizzazione che atomizza la società, e nei cocci e nei frantumi dell’esplosione la fratellanza non si riflette che in sparuti bagliori.

Siccità

Virzì rappresenta nel panorama del nostro cinema l’ultimo emissario della gloriosa tradizione della commedia all’italiana. Come in quel cinema del quale il suo si professa allievo, la malinconia e la disperazione lavorano sotto traccia, trasformando la risata in amara consapevolezza. Con Siccità compie un passo ulteriore, non abbandonando la commedia ma trasformandola definitivamente in un contrappunto alla tragedia che ne risalti i contorni, esasperando nel contrasto lo sconforto.

L’ombra della remissione è sottile, la salvezza improbabile, in un mondo popolato di anti-eroi responsabili e vittime del loro stesso disastro. La coralità è dai tempi di Ovosodo una cifra caratteristica del cinema di Virzì, che lo allinea a tanti autori del cinema internazionale molto più di quanto non succeda per alcuni pallidi epigoni di Ettore Scola. Con Siccità il mosaico è quanto mai variegato e ben caratterizzato, pur rappresentando ad un tempo il punto di forza e la più evidente debolezza del film.

Sceneggiare l’apocalisse

La scrittura è in effetti il congegno centrale del film. Riesce ad offrire uno spaccato verticale della realtà apocalittica del film, e allo stesso tempo un’evoluzione solida nel corso delle due ore. Manca tuttavia un po’ di equilibrio nello screen time dei numerosi personaggi. È forse il segno di una scrittura corale ben riuscita quello di non riuscire ad eleggere un protagonista, ma alcune storie restano più sbiadite di altre.

Purtroppo finisce quindi col rifugiarsi in alcuni cliché, cercando la facile sferzata emotiva, e talvolta col ricorrere a qualche soluzione più furba. I giochi di incastri si incagliano così in situazioni poco credibili o addirittura forzate, che finiscono per smorzare l’arco tensivo nel film.

Allo stesso tempo però la scena in cui, prevedibilmente, convergono praticamente tutte le sottotrame del film, realizza compiutamente il senso di questo dramma corale. Solo la casualità può unirci in un senso di comunione apparentemente più profonda, per poi smembrare nuovamente i legami e ricondurci alla violenza della nostra lotta solitaria.

Tutto ciò è ancora più marcato in un film di padri e di figli lontani. In trasparenza intravediamo quello scontro generazionale che è il motivo fondante della protesta ambientalista. Del resto il non velato omaggio a Parasite di Bong Joon-oh sembra voler individuare un colpevole, il parassita originario responsabile dell’apocalisse.

Siccità

Forse il tratto più geniale di Siccità però risiede proprio nel costante rovesciamento di questo scontro imminente. Il conflitto viene continuamente rimandato, fino alle ultime scene in cui se ne sancisce addirittura l’inevitabile ereditarietà. Ogni sequenza chiave posticipa la risoluzione di questa disputa, fino a che i padri, sconfitti, tornano nelle proprie prigioni, e i figli, perduti, soccombono sotto le conseguenze di un disastro che non sanno interpretare.

Orfani o vedovi, quando siamo soli, siamo tutti peggiori. E anche se alla fine l’acquazzone dovesse arrivare, forse nemmeno una pioggia di rane ci avrebbe salvato. O un concerto di musica barocca.

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