Notti magiche: recensione di un incontro con Virzì

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Il regista livornese si conferma un maestro nelle retrospettive del nostro Paese.

Dopo l’avventura anglofona di Ella & John – The Leisure SeekerVirzì torna alle sue origini. Le Notti magiche di Italia ’90 sono lo sfondo del suo ultimo film, e una notte magica è quella che ci ha regalato la compagnia del regista stesso alla prima del film. Al FLA di Pescara, infatti, Virzì ha presenziato alla proiezione della pellicola e si è concesso a lunghe interviste, lasciando lo spazio a qualche domanda anche per la Scimmia. Il suo intervento in merito alla sua ultima opera è stata una chiacchierata preziosa, che ci ha permesso di inquadrare il suo film per ciò che è: un film italianissimo.

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Il modo in cui Virzì proclama con orgoglio di essere un figlio del cinema italiano” è evidente in Notti magiche, benché il film sia un dipinto piuttosto dissacrante del cinema nostrano. O meglio, di una sua fase particolare: racconta il tramonto della stagione dei grandi maestri. E in questa cornice si dissolvono le illusioni dei tre protagonisti; tre sceneggiatori che competono per il premio Solinas, rimanendo però incastrati nei meccanismi perversi della produzione cinematografica. I loro sogni infranti sembrano essere legati alla morte del produttore Leandro Saponaro, che avviene la sera fatale in cui l’Argentina elimina l’Italia dalla competizione.

Simbolicamente si chiude un sipario.

Finisce per l’Italia il mitologico mondiale, e insieme un’epoca del nostro cinema. La morte di Saponaro, archetipo del produttore imbroglione e sull’orlo del lastrico, chiude una lunga fase del cinema italiano, che va dal dopoguerra fino alla morte di Fellini. Una storia fatta di sceneggiatori, registi, produttori e attori che finiscono tutti nel film di Virzì: alcuni sono personaggi di finzione, come Saponaro, altri sono prestati dalla storia, ma sono tutti rappresentazione della loro epoca. Ed è da questa morte che inizia il racconto dei tre personaggi principali, con un flashback lungo un mese.

La loro storia è una storia romana. Una Roma notturna, “caotica, sporca, licenziosa, piena di zoccole”; sembra la stessa Roma del capolavoro di Paolo Sorrentino, rappresentata da Virzì in una maniera piuttosto asciutta. Niente virtuosismi, illuminazione piuttosto naturale, ambientale; per evidenziare, senza clamore, gli scorci di una Roma quasi decadente. Come nella scena finale del film, in cui Ferruccio Soleri, che interpreta il maestro Pontani, alter-ego di Antonioni, si ferma a godersi l’alba sotto il Colosseo, riflettendo insieme a Katia proprio sulla fotografia di uno dei suoi lavori.

Nonostante questo, il film brulica di un repertorio cinematografico colto, che si rivela attraverso citazioni rubate da Virzì o nel tentativo di riprodurre certe atmosfere.

Alla nostra domanda:

Personalmente la scena dei tre sceneggiatori che corrono dopo la cena in osteria per andare al cinema ci ha fatto venire in mente I sognatori, di Bertolucci. Poi, c’è la scena de “La voce della luna” di Fellini. Quali sono i modelli di riferimento che ha voluto omaggiare in maniera esplicita?           

lui ha risposto:

“Mentre giravo questo film avevo in mente tanti film italiani per quanto riguarda la fotografia, la messa in scena, i rapporti tra i personaggi. Avevo in mente “Io la conoscevo bene” di Pietrangeli, “C’eravamo tanto amati” di Scola, certe atmosfere felliniane, come “Intervista”, il film che lui dedicò al suo sbarco a Roma. Avevo in mente certe memorie che si erano sedimentate e un po’ trasformate, diventando quasi degli aneddoti mitologici. Ricordo quando aprii la porta dell’avvocatessa e trovai Mastroianni singhiozzare in lacrime! Quella roba lì, quelle discussioni con i produttori, il frastuono delle Olivetti nel fumo delle sigarette mentre si batteva a macchina, erano diventati oggetto di racconto, ma anche ricorrenti sogni ed incubi.

Andandosi a mischiare però con un immaginario cinematografico, e in questo senso più che omaggiare un film, io direi rubare, nonché prendere spunto da certe modalità. Abbiamo, ad esempio, cercato con il direttore della fotografia di riprodurre l’illuminazione di Tonino Delli Colli e Giuseppe Rotunno, che erano i grandi direttori della fotografia di alcune icone del grande cinema italiano. E abbiamo fatto uno sforzo pazzesco, anche perché oggi l’illuminazione a led di Roma notturna ci ha obbligato a cambiare personalmente le lampadine dei lampioni!”

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Da questo intervento apprendiamo anche la natura autobiografica del film.

È nel personaggio di Luciano Ambrogi che ritroviamo la storia personale del regista. Il fascino per Roma, l’incontro con un disperato Marcello Mastroianni, l’origine toscana: sono motivi tratti dalla vita dell’autore che vanno ad arricchire questo racconto di finzione, insieme omaggio e critica a quel mondo perduto che Virzì ha tanto amato. Persino il tema del produttore in rovina fu vissuto sulla pelle da Virzì, quando i dissesti finanziari di Vittorio Cecchi Gori bloccarono le riprese del suo My name is Tanino.

A proposito de “La voce della luna”, probabilmente è una delle scene più interessanti del film. Saponaro accompagna Antonino Scordia, il vincitore del Solinas con la sua sceneggiatura Olio, alla De Laurentis. Lo scopo è quello di cercare di convincere Fellini a girare l’opera di Antonino, ma il maestro è lì per terminare la sua ultima opera, e quindi bisogna attendere in religioso silenzio la famosa scena finale. Tecnicamente qui, a differenza delle altre riprese notturne, l’illuminazione rinuncia ad imitare il debole chiarore naturale della pallida luna felliniana. La luce riverberata dal set irrompe nella fotografia del film, rendendo la scena iper-cinematografica e quasi surreale. Ad Antonino si schiudono le nubi che accerchiano la vetta dell’Olimpo del cinema, mostrandogli che l’arte è ancora possibile, che il cinema è ancora possibile. Ma non per tutti.

La disillusione è un tema cardinale del film.

Ciascuno dei tre protagonisti porta con sé il proprio retroterra più o meno drammatico. Il pretesto del cinema è un tema che permette a Virzì di fare un ottimo lavoro sui personaggi. C’è il toscano scanzonato, che trascina il dolore del proprio dramma reagendo con l’ostentazione della sua irriverenza; c’è il filologo siciliano, il più erudito e rigoroso dei tre, e insieme quello più corruttibile dal mondo del cinema. Infine c’è la ragazza di Roma, che in preda alle sue sue ansie e alle sue ossessioni approccia anche il cinema in maniera compulsiva.

Da queste storie nasce quella sottile malinconia e amarezza che permea un po’ tutto il film. In questo Virzì risulta al contempo un grande maestro della comicità, perché in una storia fatta di durezze riesce a far sorridere il pubblico. I momenti più comici non cedono però il passo ai volgari stilemi della comicità “all’italiana”, ma derivano dal grottesco in senso mejercholdiano. Il grottesco come lettura della complessità della realtà, in cui emergono in maniera cozzante il giovane con il vecchio, il colto e il pop (nell’incontro tra Pontani e Katia), il vero e il falso. La ricchezza delle grandi case di produzione e le osterie romane dove si segue Italia ’90. Quindi perchè no, anche il volgare rispetto all’aristocratico.

In conclusione questo film ha certe cifre qualitative.

Senza miracoli tecnici, né tanto meno volgarità, ci racconta la vera storia del cinema italiano, senza nemmeno troppe inesattezze. Tutto è verosimile, e in questo è insieme ironico e beffardo. Nell’intrecciarsi della storia del cinema con quella sua personale, il regista fa un’appassionata dichiarazione d’amore al suo paese e alla capitale, città del cinema e della corruzione, della poesia e della perdizione. La domanda che rimane è se ritragga un’epoca che è davvero finita, o se il suo fantasma infesti ancora il presente. E quindi se lui voglia davvero raccontare di una storia chiusa o omaggiare una realtà perpetua del nostro cinema, in cui quindi lui tende a riconoscersi:

E quando tutto questo sarà storicizzato, tu come sarai raccontato?

Bhe, son curioso. Come un vecchio trombone… Per fortuna sento di essere ancora in quella parabola dell’artista, teorizzata secondo alcuni proprio da Flaiano: giovane promessa-grande cineasta-solito stronzo. Prima di essere storicizzato fatemi ancora fare il solito stronzo!