La ragazza ha volato. Intervista a Wilma Labate: “Il silenzio è un linguaggio”

Sguardi Altrove Film Festival. In occasione dell'anteprima de La ragazza ha volato abbiamo intervistato Wilma Labate. Ecco come la regista romana ci racconta il suo punto di vista sul film (e la cinematografia in genere).

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Dopo l’anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti, il nuovo film di Wilma Labate, La ragazza ha volato, arriva a Sguardi Altrove Film Festival nella sezione #FramesItalia; vetrina dedicata ai film più rappresentativi del panorama italiano contemporaneo.

Abbiamo intervistato la regista e sceneggiatrice romana, che dopo il documentario Arrivederci Saigon firma un’opera sinceramente sconcertante. Un film che ferisce per il realismo crudo, impietoso nella rappresentazione della violenza sessuale, ma soprattutto per la capacità di raccontare il silenzio, l’incapacità di verbalizzare il dolore e così denunciare il crimine.

Dalla sceneggiatura dei Fratelli D’Innocenzo la giovane protagonista del film trova così il volto e il talento di Alma Noce, ma soprattutto la sensibilità e lo sguardo di una regista che nel corso della sua lunga carriera ha saputo costantemente riscrivere il confine tra fiction e cinema del reale.

Dopo l’anteprima milanese di Sguardi Altrove Film Festival, La ragazza ha volato arriva presto al cinema anche nel resto d’Italia.

Ma prima, sentiamo le preziose riflessioni che Wilma Labate ha voluto condividere con noi. Dall’idea di una violenza che cambia ineluttabilmente il corso di una vita, fino alle ragioni di un altro Cinema… anche questo possibile.

Sguardi Altrove Film Festival. La ragazza ha volato: Intervista a Wilma Labate.

Wilma Labate
Wilma Labate con il cast de La ragazza ha volato a Venezia 78 (PH: @Biennale di Venezia MARC PIASECKI/GETTY IMAGES/Getty Images Europe)

MZP: Anzitutto vorrei riprendere per un secondo il filo da Arrivederci Saigon (attualmente disponibile on-demand per gli abbonati Sky). Quanto è diverso (o non è diverso) il tuo approccio quando si parla di cinema del reale, di cinematografia documentaria e quando invece si tratta di un film come La ragazza ha volato?

Wilma Labate: L’approccio è sempre lo stesso. Quando un regista lavora insegue un suo stile e un suo sguardo. Proprio per questo io non credo ci sia una grande differenza, nel documentario come nel film di finzione c’è uno stile che è quello dell’autore. E c’è uno sguardo, un linguaggio che è più o meno lo stesso. 

È il modo di farlo che è completamente diverso, un film di finzione prevede una troupe molto più grande, non leggera, soprattutto ci sono gli attori, quindi è un modo di lavorare più lungo e complesso. Ma un documentario può durare anche 5 anni. 

Se parliamo di lavorazioni lunghe e complesse ad esempio mi viene in mente Ennio di Giuseppe Tornatore, la cui lavorazione credo sia durata degli anni. La differenza è quindi nell’impianto produttivo, nell’approccio al lavoro. 

Comunque, oggi un documentario può essere più bello di un film di finzione. Anzi, vedo che questo sempre più spesso accade. 

MZP: La ragazza ha volato è un film che racconta la violenza sessuale da un punto di vista inedito. Racconta infatti l’incapacità di denunciare, anzi non solo di denunciare, ma anche semplicemente di parlare, condividere, raccontare la verità su quanto accaduto a una sorella o magari un’amica.

La violenza è mostrata in piano sequenza, senza stacchi, senza che da spettatori possiamo sfuggire a un solo secondo di quest’esperienza. Ma quello che non avevo mai visto così rappresentato al cinema è quello che segue, un dolore che appartiene all’area del non detto, della impossibilità di parlare.

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W.M.: Io e Alma Noce abbiamo lavorato tanto proprio su questo. Lei è un’attrice fantastica, estremamente duttile e anche estremamente sensibile. La nostra idea era dare voce ai silenzi. Detto così sembra una cosa impossibile ma nel cinema invece è possibile. È il silenzio che parla. I silenzi di Nadia raccontano e parlano, anche in termini molto espliciti.

Lei non riesce a parlare di questa cosa non perché ci sia un ragionamento dietro, ma perché c’è un trauma. E anche perché c’è una sua scelta, una sua tendenza che è quella della solitudine, quella di essere una ragazzina estremamente solitaria, che però paradossalmente ha una sua autonomia, una sua piccola, piccolissima forza interiore.

Abbiamo ragionato molto anche sull’utilità di verbalizzare un trauma di quel tipo. Una cosa che si è subita che è mortificazione, umiliazione, violenza. Ci siamo anche dette dopo molto tempo e molto lavoro che forse non basta per superare il trauma riuscire a verbalizzarlo, o forse addirittura non serve. 

Quel tipo di violenza che una donna subisce rimane dentro di sé sempre. Lascia una traccia, una ferita indelebile, nel senso che si può rimarginare nel tempo ma una traccia, fortissima, rimane.

Non è sempre detto che la parola sia terapeutica o che comunque sia risolutiva. Il silenzio è un linguaggio. Noi abbiamo lavorato esattamente su questo. Il silenzio è un modo di esprimersi, ovviamente doloroso, però è una lingua anche il silenzio.

MZP: Il secondo elemento che ho trovato sconvolgente è come il film sappia rappresentare il rischio, un pericolo che sembra insito nella stessa “condizione femminile”. Fin da piccole le madri devono trasmettere alle figlie la consapevolezza di come basti accettare incautamente un invito, e in secondo la tua vita cambia cambia per sempre, irrimediabilmente, non sarà mai più la stessa.

W.L.: E come si può avere davvero questa consapevolezza? Può succedere a tutte le donne a tutte le età, perché è un fatto del tutto imprevedibile. Di fatto però durante l’adolescenza succede di più, perché c’è un approccio meno accorto alla vita, più irresponsabile, incosciente.

Nell’adolescenza c’é una molla che ti spinge verso la crescita e la conoscenza del mondo, ti incuriosisce nei confronti di tutto, ed è proprio lì che puoi commettere degli errori fatali. Il film racconta un errore di pochi secondi, un “ok si va bene” che determinerà poi tutta la vita. Qualcosa che ti lascia una ferita che non si cancella, non si dimentica. 

MZP: Perché la protagonista accetta l’invito? Per sembrare magari più grande, una ragazza più intraprendente?

W.L.: Nadia è molto sola. Accetta per sentirsi meno sola. Di fronte a un elemento di offerta, di conoscenza, è chiaro che lei dice: “ma perché no?” Non ha amiche, amici, non ha una vita sociale come tutte le adolescenti, da una parte per scelta, dall’altra perché di fatto è una ragazzina molto solitaria. 

Purtroppo ce ne sono tante, è una condizione molto diffusa. Non mi metto a giocare al piccolo psicanalista, faccio un altro mestiere. Ma credo si tratti di un sintomo di disagio. Disagio che inizia in famiglia, altro elemento su cui abbiamo molto lavorato. Una famiglia dove non si comunica, dove c’è la cura ma è la cura necessaria, “ti scaldo la fettina”.

C’è anche la differenza generazionale. La differenza di età che separa Nadia e i genitori allarga lo spazio della comprensione, crea una distanza.Le donne della mia generazione hanno fatto i figli presto, con incoscienza. Adesso le donne ci pensano molto di più, sono maternità tardive. Questo significa che i figli degli anni ‘70 sono più matti? Non lo so, non ho la risposta o la verità in tasca.

So che anche i figli di oggi non mi sembrano molto sani. Un bambino ha comunque bisogno di un’autorità, una certezza che lo rassicuri. Oggi è tutto in discussione ma soprattutto è tutto in crisi profonda. L’ispirazione che possono dare un padre e una madre è molto diversa, perché c’è una profonda crisi del senso del futuro, della speranza del futuro. 

MZP: A proposito, com’è stato lavorare con Fabio e Damiano d’Innocenzo, due giovani autori così provocatori?

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I Fratelli d’Innocenzo erano ancora parecchio sconosciuti, avevano scritto una sceneggiatura che a me piaceva molto e che ho opzionato, ma non abbiamo mai lavorato insieme.

Siamo molto diversi, lontani per generazione, e soprattutto siamo diversi, lontani sul piano dello sguardo. Quindi non si può dire che abbiamo lavorato insieme, ma che la loro sceneggiatura era molto bella e io me la sono “cucita addosso” per il film.

MZP: Ultimo elemento e ultima domanda. Nel terzo atto del film ho capito che cercavo d’imporre alla protagonista il mio giudizio, avevo comunque la pretesa di sapere cosa fosse giusto fare, cosa io avrei fatto al suo posto. La sfida finale di quest’opera è quindi sospendere il nostro giudizio personale, non giudicare Nadia e la sua scelta di vita? 

C’é un momento all’interno del film in cui Nadia sembra considerare l’idea del suicidio. Il suo volo andrà poi in una direzione totalmente diversa, che è quella che lei sceglie, finalmente qualcosa che lei vuole. E chi siamo noi per giudicare la sua scelta, per decidere che era meglio denunciare, o che fosse giusto abortire?

Con questa domanda ci salutiamo. Vi terremo aggiornati sulla distribuzione in sala de La ragazza ha volato di Wilma Labate, che ovviamente a questo punto vi consigliamo come un film imprescindibile, tra i più significativi di questa stagione cinematografica.

E se volete conoscere altre registe da Sguardi Altrove 2022, continuate a seguirci per la prossime interviste.