Fear Street, la Recensione dell’intera trilogia horror su Netflix

Tre film horror, tre linee temporali intrecciate e accomunate da violenza e maledizione. La recensione della trilogia completa dedicata a Fear Street, disponibile su Netflix.

Condividi l'articolo

Fear Street Parte Due: 1978, la Recensione

fear street: 1978, recensione

Impossibile spiegare la connessione tra primo e secondo capitolo senza cadere nello spoiler. Vien da sé che eviteremo ogni racconto possibile che possa inficiare l’intelligente colpo di scena finale di Fear Street: 1994. Basti sapere che verremo trascinati nel passato con un grande flashback che potrà chiarificare alcuni punti lasciati in sospeso nel primo film. Aprendo chiaramente nuove porte.

Appare quindi sin da subito interessante la struttura che compone questa trilogia. La linearità spazio-temporale viene scomposta e mescolata in funzione del racconto. Un racconto che vede un secondo film come sequel ma anche prequel. Un paradosso che comunque cattura ancor di più l’attenzione dello spettatore.

Il presente del 1994 diventa quindi un vero e proprio sipario che apre e chiude Fear Street: 1978. Stavolta, tutto gira intorno al più classico dei camping estivi, fatti di adolescenti alle prese coi primi lavori e bambini da dover gestire. Un cambio radicale rispetto al primo film che non solo riguarda il contenuto ma anche ovviamente tutta la messa in scena.

È chiaro come in questo film permangano le derivazioni dello slasher classico. Stavolta però si guarda allo slasher pre-Scream, quello più puro e originario. Si attinge quindi a piene mani a Venerdì 13 e il mascherato Jason Voorhees, alla sua ferocia e voglia di vendicarsi. Nessun mostro che “resuscita” dal lago, però. È sempre il sottosuolo ad essere maledetto ed infestato, a far risalire la rabbia e lo scontro.

Uno scontro che si ripete, di nuovo, su un territorio neutro. Infatti, è in corso una “guerra” tra i bambini di Sunnydale e quelli di Shadyside. Una guerra che però, alle volte, va ben oltre le regole del divertimento. In Fear Street: 1978 lo scontro adolescenziale assume caratteristiche più precise, guardando al bullismo e ai soprusi. Alle dicerie, all’uso delle droghe psichedeliche. E quindi, alla punizione.

Come insegnò Mario Bava, codificando le regole dello slasher con il suo Reazione A Catena, l’omicidio da parte del serial killer era un vero e proprio gesto punitivo e purificatore. La reazione necessaria per punire le promiscuità e l’uso imperversante di droghe della malefica gioventù post rivoluzione sessuale.

fear street: 1978, recensione

Il cambio estetico rispetto a Fear Street: 1994 è tanto radicale quanto palese. La violenza acquisisce una ferocia ancor più brutale, in luogo di una certa sadica creatività omicida che caratterizzava soprattutto il finale sanguinolento del primo menzionato film. L’assassino, armato di ascia, uccide chiunque, indiscriminatamente e ferocemente, per l’appunto. Come se volesse colmare una sete di sangue e vendetta verso dei poveri innocenti.

LEGGI ANCHE:  Us: Jordan Peele parla del primo terrificante trailer del suo nuovo horror

Pur non indugiando nelle sequenze degli omicidi, i toni cupi che caratterizzano Fear Street: 1978 lasciano ben poco spazio all’immaginazione. Sesso e violenza dunque vengono esplicitati nella loro interezza, mostrando tanto sangue e qualche scena di sesso abbastanza esplicita per il contesto.

Nessuna nudità integrale, nessun indugio sul massacro. Ma il sesso c’è, l’uso di droghe pure e non si risparmiano i massacri dei poveri bambini lì presenti. Insomma, un vero e proprio film anni Settanta pur parzialmente privato della parte d’exploitation classica. Ciò non toglie il fatto che in alcune occasioni potrebbe essere consigliabile girarsi dall’altra parte.

Anche in questo caso non mancano omaggi e citazioni esplicite, soprattutto a Stephen King, coadiuvate dalla solita colonna sonora in linea coi tempi. Un vero e proprio viaggio in un passato filmico che viene accentuato dalla regia di Leigh Janiak, tra zoomate tipiche dei film di genere anni Settanta.

Inutile dire che anche in questo caso ci sarà un doppio colpo di scena che vi costringerà a premere play subito dopo per volare nell’ultima parte, Fear Street: 1666. E finalmente capire cosa è successo alla temibile strega di Shadyside, chiudendo il cerchio e dando finalmente un senso preciso e lineare ad una mitologia sicuramente innovativa e intrigante.

Fear Street Parte Tre: 1666, la Recensione

fear street: 1666, recensione

Un salto nel passato, coerentemente con la saga e quanto mostrato fino ad ora. Dagli anni Settanta si vola indietro nel tempo ancora una volta, stavolta di qualche secolo. Finalmente si scoprirà la verità su quanto accaduto nella cittadina con più serial killer del mondo. Una verità a dir poco sconvolgente e che non sveleremo per ovvi motivi.

La chiusura del cerchio però non sembra essere all’altezza di quanto mostrato fino ad ora. Fear Street: 1666 si perde sfortunatamente nella sua ambizione, facendo un passo molto lungo per la sua gamba. Anche troppo.

L’interessante componente folkloristica, che tanto coinvolge un certo tipo di horror autoriale, rimanda inevitabilmente al bellissimo The VVitch. Tuttavia è inutile dire che le strade battute sono ben distanti dal film di Eggers. Non tanto negli intenti comunicativi quanto più nella regia.

LEGGI ANCHE:  FIPILI – Recensione di Me and the devil, film di Dario Almerighi

L’intera prima parte di Fear Street: 1666 riprende gran parte degli attori visti fino ad oggi nel primo film ma in altre vesti. Vesti sporche, antiche e soprattutto bigotte. Senza scendere nei dettagli, il racconto si incentra principalmente sul concetto di superstizione e ignoranza. E l’omosessualità vista come male assoluto.

Il sangue versato sarà moltissimo, di pari passo con i colpi di scena a dir poco incredibili. Sono molte le sequenze non adatte ai deboli di stomaco, le quali non si limitano al gore senza fini. L’atmosfera viene caricata al massimo, per poi sfociare ora nella feroce violenza, ora in un’inquietudine morbosa all’inverosimile, come nella scena del pastore senza occhi.

fear street: 1666, recensione

Tuttavia, sebbene il gore, i colpi di scena e tutti i sottotesti che la sceneggiatura di Fear Street: 1666 porta con sé, il taglio della regia di Leigh Janiak diventa troppo televisivo, mancando di quel guizzo stilistico che l’ha contraddistinto nei primi due capitoli. Una regia forse troppo semplice e non sempre all’altezza della situazione.

Non aiuta in tal senso neanche la seconda parte, dove si ritorna al 1994 d’inizio trilogia. La dicotomia tra i due mondi è fin troppo evidente e questo può risultare estraniante. Anche per un fattore prettamente registico, giacché si torna al classico slasher a cui eravamo stati abituati fino a quel momento.

Nel complesso, l’intera trilogia non può che essere promossa, nonostante il mezzo passo falso della terza parte. Pur adagiandosi sui crismi citazionisti, lo sguardo è decisamente interessante, capace di catturare l’attenzione del fan dell’horror e inserendosi in questo universo riuscendo anche a dire la sua. Cosa non facile, soprattutto vista l’evidente doppia deriva del genere nel cinema di oggi, tra commerciale e autoriale.

In questo contesto, Fear Street riesce a coniugare perfettamente le due tipologie menzionate, restando ancorato ai prodotti che Netflix offre ai suoi abbonati. Un teen horror che guarda tanto a ciò che gli utenti vogliono, quanto al genere stesso, mettendo in scena ogni sfumatura possibile. Restiamo in trepidante attesa per un eventuale (e longevo, ci auguriamo) proseguo.

Cast

  • Kiana Madeira: Deena Johnson
  • Olivia Scott Welch: Samatha Fraser
  • Benjamin Christopher Flores Jr.: Josh Johnson
  • Gillian Jacobs: C. Berman
  • Sadie Sink: Ziggy

Trailer