Top 50: i migliori album del 2020 secondo la Scimmia

Ecco quelli che per noi sono i migliori 50 album del 2020

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20. Fontaines D.C. – A Hero’s Death

La band di riferimento della scena contemporanea irlandese, nonché dell’intero panorama post-punk, arriva con il suo secondo album in due anni, rifinendo lo stile e la produzione, qui una spanna sopra rispetto al debutto. Nonostante il miglioramento qualitativo, però, i suoni sono sempre gli stessi, ma forse è anche per questo che i Fontaines D.C. ci piacciono così tanto: hanno saputo prendere gli aspetti classici del punk svecchiandoli ed adattandoli ad una struttura più pop e “anthemica“, dai riff di chitarra non scontati, il tutto in mezzo a dei testi apparentemente disinteressati e, piuttosto, tanto semplici quanto intelligenti. A Hero’s Death fa ben sperare per la carriera di Chatten e compagni, eredi, per tante ragioni, di un genere portato avanti nel loro stesso paese dalla band di “un certo” Bono Vox.

A cura di Ivan Arena.

19. Remi Wolf – I’m Allergic to Dogs [EP]

Breve ma intenso! I’m Allergic to Dogs è proprio quello che ci voleva per dare un po’ di colore a questo grigio 2020, grazie Remi Wolf! Il secondo album della cantante Californiana, seguito ironico dell’EP d’esordio You Are a Dog, è una esplosione di energia. Remi Wolf, oltre ad avere una voce incredibile, ha anche una carica pazzesca. La sua musica, che unisce future pop, bedroom pop e funk, è un vulcano di energie e colori, dando un’impressione di qualcosa di fresco. Woo! è il perno attorno a cui ruota I’m Allergic to Dogs, una “explosion of my feeling on LOVE” a detta di Remi.

A cura di Aurelio Fattorusso.

18. Grimes – Miss Anthropocene

Miss Anthropocene è forse uno dei lavori migliori di tutta la carriera artistica di Grimes, nel quale la cantante raggiunge una visione così “consapevole” che esprime attraverso la sua poetica. Il concept dell’album si concentra sulla presunta fine del mondo, già avvenuta, a causa dell’ipocrisia umana, e lo fa tra un grido di ribellione e una risata sarcastica. In Miss Anthropocene Grimes approda ad una fusione equilibrata tra vari generi, mescolando elettronica, pop, rock, synth, dance, minimal techno, electro-house, folk, bass music. Il risultato è un dark pop elettronico all’interno del quale sembrano importare di più le atmosfere che ne scaturiscono, dall’angoscia al cinismo introspettivo.

A cura di Aurelio Fattorusso.

17. Soccer Mommy – Color Theory

Color Theory è il secondo album in studio della giovane Sophia Regina Allison, in arte Soccer Mommy, nonché il primo a seguire una certa coerenza non solo a livello di testi ma anche in quanto ai suoni: a detta dell’artista, infatti, il disco sarebbe suddiviso in tre momenti – blu, giallo e grigio – rappresentanti principalmente tristezza, malattia e perdite. La cantautrice di Nashville ha sempre cercato di fare in modo che la sua musica non venisse etichettata limitatamente al bedroom pop e con questo suo ultimo lavoro riesce finalmente appieno nell’impresa, oltre che a figurare tra i nomi più significativi del panorama indipendente statunitense, grazie al suo songwriting interessante e a suoni di chitarra lavorati.

A cura di Ivan Arena.

16. James Blake – Before [EP]

James Blake è il poliedrico per eccellenza, il sad boy che riesce finalmente ad abbandonare quella patina di malinconia alla volta di un elettro r&b meno impegnativo. Before è concentrato su 4 tracce per un totale di appena 16 minuti di ascolto. Al di là della marchetta della Cadillac Escalade (si deve pur poter campare in qualche modo), è una fortuna poter apprezzare l’ermetismo musicale del giovanissimo producer Londinese. In due parole: da ascoltare.

A cura di Marika Lucciola.

15. Sufjan Stevens – The Ascension

Dopo averci lasciati nel 2010 con lo straordinario The Age of Adz – tra le più alte vette artistiche raggiunte dal cantautore – ricomincia la storia d’amore tra Sufjan Stevens e il glitch pop. The Ascension è un viaggio nel passato di un’ora e venti, tra melodie e suoni nostalgici che strizzano l’occhio ora agli ’80 ora ai ’90. I loop di drum machine sono qui stravolti e pieni di rumore bianco e non mancano i campioni vocali e i brani da oltre 7 minuti che compaiono spesso e volentieri nelle tracklist dell’artista. Insomma, un disco che, seppur non rivoluzionario, riesce a portare nel mainstream nella sua personalissima maniera un genere che sta guadagnando sempre più credito, anche grazie a Bon Iver, altro grande cantautore convertitosi all’elettronica.

A cura di Ivan Arena.

14. Yaeji – What We Drew

La musica di Yaeji nei primi dodici secondi sembra uscita da una stereotipata installazione di arte contemporanea negli showroom della Grande Mela. La situazione in cui potresti trovare anche Yoko Ono a “cantare”, per dire. Dal tredicesimo secondo in poi, non si riesce più a prevedere nulla. Tredici brani con tredici strutture diverse. Anche nei passaggi più catchy, la dj Newyorkese scombina le corrispondenze tra strumentale e voce, sciogliendo dalle fondamenta la costruzione dei pezzi. Il trucco di Yaeji ha funzionato alla grande: far sembrare il suo album un qualsiasi collage di elettronica, e trasformarlo in un laboratorio fluido di effetti vocali e R&B.

A cura di Francesco Di Perna.

13. Nothing but Thieves – Moral Panic

Moral Panic, terzo disco dei Nothing But Thieves, esprime le diverse fragilità dell’uomo: paura, insicurezza, sfiducia e viltà.  Le influenze musicali provengono dal contemporaneo, con contaminazioni degli anni ‘80, e una sonorità elettronica, ma l’indie rock domina su tutto. Tuttavia la musica non va mai a snaturare l’identità stessa della band che mantiene una precisa impostazione che poggia le basi sulle chitarre e la voce di Conor Mason. Moral Panic è uno degli album sicuramente più interessanti dei Nothing But Thieves. Ed è la dimostrazione che la band di Mason ha ancora tante energie da vendere ed è qui per farlo.

A cura di Aurelio Fattorusso.

12. Caribou – Suddenly

Dan Snaith – alias Caribou – con questo decimo disco si pone lontano anni luce dalla commercialità di Odessa, brano che l’ha reso celebre. Suddenly è costellato da brani che sono pianeti dalla difficile esplorazione, sorretti da un sistema binario a due poli. Uno è l’anima catchy e gustosamente mainstream del disco (la quale può essere colta ascoltandone i singoli). L’altro è la sovrastruttura maggiormente ricercata del producing, colta in quelle tracce che delineano assai più fedelmente il personaggio di Caribou. Un viaggio tra pianoforti glitchati, rap e linee melodiche, brani in acido alla Aphex Twin o alla Squarepusher. Il tutto, ripercorrendo le tappe fondamentali della storia del producing: dall’eurobeat ai Daft Punk e tanti altri. Davvero notevole.

A cura di Tiziano Altieri.

11. Childish Gambino – 3.15.20

L’ultimo godibilissimo lavoro di Donald Glover, aka Childish Gambino, si muove sulla falsariga del suo fortunato e controverso This Is America. L’obiettivo è sempre lo stesso: smuovere le coscienze. E lo fa attraverso una copertina disturbante e una tracklist non sempre lineare dal punto di vista melodico, ma che colpisce dritta al punto. Il mondo non è quello che vediamo dagli schermi del nostro telefonino. E 3.15.20 non è un album facile. Ma e’ sicuramente tra i momenti artistici più alti di questo 2020.

A cura di Marika Lucciola.

10. Yves Tumor – Heaven For A Tortured Mind

L’album di Yves Tumor è uscito in anticipo spiazzante (ad aprile) per essere un disco di Natale. Nel senso che si può mettere tranquillamente alla cena di famiglia (nel rispetto delle norme) e fare tutti contenti; ma rimane un disco di Yves Tumor. Cioè? Il lavoro di un essere umano offertosi in sacrificio al mondo dell’arte. Tra rock, neo soul ed elettronica che non sono né cucinati insieme, né accostati, né sovrapposti ma pensati insieme. Infatti il risultato è fruibile da chiunque anche nei momenti meno convenzionali. Il vero pregio di questo disco è non aver bisogno della mente di Tumor per essere compreso; essere un disco (anche) ascoltabile, e non è poco.

A cura di Francesco Di Perna.

9. Dua Lipa – Future Nostalgia

Future Nostalgia potrebbe essere il figlio non riconosciuto di Madonna, Daft Punk e Kylie Minogue messi insieme. L’ossimorico titolo anticipa il contenuto dell’album, il secondo della giovanissima stella del pop, che si trascina tra pop, dance e funk con una naturalezza che sconvolge. Dua Lipa ha portato lustro al più moderno dei generi attingendo dai suoi più fedelissimi pioneri. Con il migliore dei risultati.

A cura di Marika Lucciola.

8. Bring Me the Horizon – POST HUMAN: Survival Horror

I Bring Me the Horizon, paladini del metal pop contaminato e sempre presente a sé stesso, si rivelano con il loro ultimo album tra i pochi (forse gli unici) in grado di raccontare la pandemia e gli effetti che ha avuto sulla nostra società quasi in tempo reale. Il disco è un ritorno a suoni metal più forti, che però non disdegna ritornelli accattivanti e collaborazioni di livello per creare un ritratto distopico e volutamente innaturale di ciò che stiamo vivendo e che viviamo ancora. Un ritratto che potrà parere ingenuo, ma è fedele. I BMTH si confermano con questo nuovo lavoro una realtà unica, un nome originale, in bilico tra metal, indie, pop ed elettronica (mettiamoci anche il rap), capaci di cogliere segnali che nessun altro coglie e raccontarceli sempre con la stessa importanza.

A cura di Andrea Campana.

7. The Strokes – The New Abnormal

Con The New Abnormal gli Strokes riescono a rielaborarsi rimanendo sempre sé stessi, ma le sonorità si aprono a nuovi orizzonti e nuove melodie. In The New Abnormal ogni singolo brano esprime un’identità propria rendendo il disco eterogeneo. Casablancas riesce a dare un’impostazione precisa ad ogni singolo brano. L’approccio si fa più strutturato e meno d’impatto. The New Abnormal rappresenta in un certo senso una nuova strada per i The Strokes oppure il loro canto del cigno, considerando anche i loro trascorsi, ma è la perfetta sintesi tra il loro passato e l’attuale scenario musicale.

A cura di Aurelio Fattorusso.

6. Hayley Williams – Petals for Armor

Un’intera generazione di stili musicali e del cantato attraversano l’esordio dell’americana Hayley Williams, passando da artisti come Björk, Radiohead e Franz Ferdinand e intersecando generi come il pop rock, il funky, la carioca e l’elettronica. Con questa in particolare, Hayley si trova perfettamente a suo agio. Ciò – specie nella prima parte del disco – contribuisce a rendere i brani assai coinvolgenti, e a farci esclamare: “Perché tutto il pop non si fa così!?”. Evidenti i richiami anni ’80, sia nella voce che nell’accompagnamento (leggeri echi di Kate Bush sopravvivono anche nel basso, suonato molto alla Del Palmer). Anche se dispersivo nella sua interezza, il disco regala bei momenti, e la moltitudine di suggestioni soddisferà più palati per volta. Davvero interessante.

A cura di Tiziano Altieri.

5. 070 Shake – Modus Vivendi

Ah, 070 Shake! Quella che cantava in Santeria di Pusha T! No aspetta, la voce sembra diversa… Non vi preoccupate, Danielle Balbuena sa cosa sta facendo. L’incredibile debutto della ragazza del New Jersey ci costringe a ritornare (anche) alle playlist future funk di YouTube. Cogliendo il lato nostalgico dei synth senza cadere nel trolling della vaporwave, 070 Shake ha provato a far diventare il pop retrofuturistico un quasi-presente. L’ha dovuto far scontrare con l’hip hop, che inevitabilmente ha prevalso. Ne è uscito fuori un suono che farà scuola, e ci mettiamo la mano sul fuoco. Uno dei migliori esordi degli ultimi anni. E comunque, ha anche cantato in ye e Jesus Is King di Kanye, ma questo disco la presenta meglio di qualsiasi collaborazione.

A cura di Francesco Di Perna.

4. Moses Sumney – Græ

La vera scoperta di questo 2020 è proprio Græ. Uscito in due tempi, nel bel mezzo della pandemia che ancora ci vede provati, Moses Sumney tocca inconsapevolmente dei temi particolarmente attinenti al periodo, primo fra tutti quel senso di inattitudine e solitudine che accompagna l’essere umano dalla notte dei tempi. È difficile inquadrare questo disco in un unico genere: è così variopinto da rientrare nel folk-rock, ma con incursioni elettro, acustiche e addirittura jazz. Tra le vere perle di questo brutto anno. Assolutamente da ascoltare.

A cura di Marika Lucciola.

3. The Weeknd – After Hours

Con After Hours, approdiamo sul versante più commerciale della musica del 2020. Al suo quarto disco, Abel Tesfaye ci mostra seriamente cosa vuol dire fare pop/R&B, attraverso produzioni e videoclip dalla notevole fattura. Buona parte del disco è infatti inscindibile dal relativo videoclip (lo dimostra la notevole durata della title track: utile per aggiungervi un supporto visivo). Le bizzarre vicende che coinvolgono il protagonista-cantante all’interno dei videoclip si ripercuotono sulla produzione: psichedelica quand’egli lecca una rana, percussiva quando viene picchiato da dei buttafuori. In tutto ciò, Abel trova anche il tempo di citare le produzioni anni ’80, come in Blinding Lights, il cui sound “retrò” influenza anche alcune delle tracce successive. Sinceramente, vorremmo che tutto il pop fosse così.

A cura di Tiziano Altieri.

2. Nicolas Jaar – Cenizas

Un disco dalle personalità multiple questo Cenizas. In esso riecheggia l’ambient più intimista, lo sperimentalismo più ostinato, e persino lo spirito della musica tradizionale indoeuropea. Molteplici gli stili attraversati: il gotico alla This Heat o alla Nico, il jazz (sia minimalista che “Colemaniano”), persino delle progressioni armoniche alla Radiohead. L’incipit incerto del disco, reso tale dalla quasi assenza di ritmo, è subito negato dallo svolgimento, dove si aggiungono strumenti su strumenti (compresa la voce) man mano che si giunge all’ultima traccia. L’introspezione del disco è annunciata fin dalla copertina: un viso con i connotati rivolti in dentro. Nicolas Jaar, con Cenizas ci invita chiaramente a guardare dentro di noi. E vi assicuriamo che ci riesce a pieno.

A cura di Tiziano Altieri.

1. Fiona Apple – Fetch the Bolt Cutters

Fetch the Bolt Cutters è l’album più incasinato di questo 2020, ma, forse, è anche il lavoro più sincero ed intimo di Fiona Apple. Ed è proprio per questo motivo che arriva con tanta forza, catapultandoci nel suo mondo, tra ricordi d’infanzia e riflessioni sull’amore. Fetch the Bolt Cutters è un lavoro istintivo e personalissimo, che mescole suoni e parole per ricreare stati emotivi, dalla rabbia al desiderio, in modo così genuino e spontaneo. È così che tra toni dolci e altri graffianti, l’album trova nelle sue imperfezioni la sua qualità migliore che lo rende autentico e sentito

A cura di Aurelio Fattorusso.

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