L’inquietante e oscura storia dietro i Puffi

I Puffi hanno da sempre affascinato milioni di persone tanto da spingere molti a fantasticare sulla natura dei folletti blu

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A guardarli da lontano, I Puffi sembrano concepiti apposta per prestarsi alle chiavi di lettura più creative. La limpidezza del tratto e delle storie, gli epiteti nei nomi propri, il contesto astorico: tutto nella creatura di Peyo sembra più o meno volutamente rimandare ad un’immaginario classico da allegoria esopica. Il resto viene da sé.

La caccia al significato nascosto nel calderone della cultura pop è oggi un hobby sdoganato; ciò che una volta trovava il proprio humus nei meandri del pittoresco internet 1.0 dei forum e delle bacheche, della leggenda metropolitana da raccontare a ricreazione, dopo vent’anni di spericolati cultural studies ha ormai trovato una sorta di dignità para-accademica. Chiunque, presto o tardi, si sarà trovato di fronte alla storia di Ash Ketchum in coma, o di Winnie Pooh quale elaborazione diagnostica dei disturbi cognitivi di Alan Milne. Il confine tra fan theory e legittima interpretazione è ormai sbiadito. Attribuire messaggi, contestualizzazioni bizzarre e ovviamente agende propagandistiche politiche ai più innocui prodotti culturali di consumo è oggi un esercizio intellettuale addirittura incoraggiato. Vale tutto.

Nati come personaggi marginali, i Puffi prendono il controllo della produzione di Peyo grazie al successo del merchandising

In una simile gara, I Puffi la fanno da padroni. Prodotto di merchandising tra i più celebri del novecento europeo, la loro connotazione asettica da proto-Minions li ha resi da subito il soggetto preferito di ogni tipo di teoria oscura. Inizialmente concepiti nel 1958 come personaggi marginali per la serie John e Solfamì  da parte di Pierre “Peyo” Culliford, gli Schtroumpfs debuttarono cinque anni dopo con la loro prima striscia. Trionfo della gloriosa scuola della linge clear belga aperta da Hergé, i fumetti di Peyo si ascrivevano tematicamente alla corrente infantilista lanciata dal padre di TinTin. Con un occhio puntato verso pupazzetti, figurine e collezionismi vari, che a partire dagli anni ’70 li resero un fenomeno mondiale, consacrato dal glorioso cartoon Hannah e Barbera.

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Come ogni prodotto narrativo concepito senza lore o contesto, I Puffi sembrano quindi fatti apposta per suscitare l’attribuzione selvaggia di significati. Chiunque ha familiarità con la premessa, almeno nei suoi aspetti generali: una congrega di folletti blu dal personalissimo idioma, che vivono in comunità in mezzo ai boschi, sfuggendo alle caccia di un losco mistico in toga nera.

La numerologia interna reclama a gran voce speculazioni occulte: prima che il cartoon americano ne scombinasse le carte, il microcosmo di Peyo contava 99 Puffi, ognuno dei quali di 100 anni di età. Di questi, solamente 7 erano dotati di caratteristiche distinguibili, volutamente allegoriche per altrettante tipologie umane; tra questi “eletti”, un grande vecchio di 542 anni (con abito rosso da cerimonia), ed un’unica, sessualizzata entità femminile a scombinarne l’androginia collettiva. E già gli echi folk horror da villaggio di Midsommar diventano difficili da ignorare. Si vada ad aggiungere il background da alchimia tardo-medievale, un gatto-aiutante di nome Azrael (l’Arcangelo della Morte), ed ecco pronta la più prolifica fonte di leggende urbane e interpretazioni esoteriche del pop contemporaneo.

Satanismo e alchimia, stalinismo e neonazismo, i mostriciattoli blu sembrano fatti apposta per prestarsi ad ogni tipo di lettura oscura

Chi cercasse incuriosito una lettura dark de I Puffi da raccontare in giro non avrebbe che accomodarsi e puntare il dito. Le interpretazioni più in voga sono storicamente quelle più classiche, ancora legate ad un immaginario culturale novecentesco: ecco dunque quella dell’utopia stalinista (tra le più vecchie: la comunità collettivista, guidata da un filosofo barbuto in abiti rossi e da un trotzkista intellettuale con gli occhiali, perseguitata da un avido bavoso in nero – ancor più stuzzicante considerata la destrosità della scuola fumettistica belga del dopoguerra); e ovviamente quella massonica (celebrata in un famosissimo e discusso saggio italiano di qualche anno fa – un oceano di corrispondenze grafiche, numeriche e verbali chiamate a testimonianza). 

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Un’altra teoria stuzzicante sposta il discorso de I Puffi sul piano apertamente cattolico-satanista. Liberandosi delle complessità offerte da una lettura cabalistica o preadamitica, ecco che la caccia di Gargamella l’ecclesiasta (altro che stregone) ai demoniaci mostriciattoli blu diventa il percorso di purificazione dalle tentazioni terrene; e proprio queste rappresentano i sette Puffi originari, sette come i Peccati e guidati nel tormento del credente da un luciferino Grande Puffo in berretto rosso – Satana, ca van sans dire. I rituali lunari, pagani e sabbatici delle canzoncine non sarebbero dunque che la maschera per dissimularne la pericolosità. Bambini avvisati.

Ma ovviamente basta spostarsi di poco per trovare accuse di propaganda antisemita, neonazista, persino di ideologia white supremacy (in voga queste sopratutto nel mondo anglosassone). Ognuno sembra avere la sua. A conferma che il gioco delle interpretazioni, come una macchia di Rorschach a misura di ventunesimo secolo, riveli spesso più del lettore che non del cartoon anni ’80 di turno.

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