La mia vita con John F. Donovan: recensione del film di Xavier Dolan

Lontano dalla genialità che aveva caratterizzato i precedenti Mommy e Laurence Anyways, La mia vita con John F. Donovan è un racconto forzato e innaturale.

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Con la fine della realizzazione e la successiva distribuzione di La mia vita con John F. Donovan, sembrano essere ormai passati (per ora) gli anni in cui Xavier Dolan aveva la capacità di incanalare totalmente il suo talento artistico, plasmando creazioni cinematografiche che, degne di nota, erano riflessi di pura genialità.

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Gli ultimi due film realizzati da colui che avrebbe dovuto rivelarsi il regista più promettente di un’intera generazione potrebbero essere interpretati come un sintomo di scarsa creatività, di un’idea artistica incapace di essere proiettata coerentemente, di una cinematografia che, lontana anni luce dai fasti di qualche anno fa, ha iniziato ad attorcigliarsi su se stessa, scadendo in un’esasperazione ingiustificata, superficiale e irritante di quelle peculiarità che erano state in grado di donare all’enfant prodige una fama più che meritata.

La mia vita con John F. Donovan si struttura come la narrazione di un ricordo, di un flusso di coscienza impresso sul nastro di un registratore, di una corrispondenza epistolare dall’epilogo brusco e tragico. In una lunga e prolissa intervista che, assumendo le sembianze di un’apologia post mortem, si rivela essere un esplicito omaggio al Titanic di James Cameron e alle brillanti Lettere a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke, Xavier Dolan traduce in immagini ciò che viene raccontato dal co-protagonista Rupert Turner (Ben Schnetzer), impegnato in un dialogo con Audrey Newhouse (Thandie Newton), una giornalista scettica e scorbutica che, in un primo momento, vede nelle memorie di Turner solamente futili capricci, problemi infantili da primo mondo. Attraverso le parole dell’ormai adulto Rupert, promettente attore e scrittore in erba, lo spettatore scende nelle complesse profondità dell’animo di colui che presta il proprio nome al titolo, il brillante attore John F. Donovan (Kit Harington). O almeno, questo è quello che il regista si era prefisso come obiettivo.

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Ogni singola inquadratura, ogni singolo dialogo e ogni singola espressione di La mia vita con John F. Donovan sono carichi di quell’eccessiva vena melodrammatica che, visibilmente innaturale e forzata, dona all’ultimo lungometraggio di Dolan nient’altro che una patina fastidiosa, insopportabile e, a tratti, estremamente pretenziosa. Con il nobile obiettivo di fare chiarezza sulle ombre che circondano il mondo del cinema, il regista francofono non realizza che una vignetta poco credibile, mancante di spessore; uno schizzo disegnato in maniera frettolosa e, proprio per questo, eccessivamente banalizzante. Quasi come se lui, quel mondo di cui sta parlando e dal quale, ormai, è stato inglobato da diversi anni, non l’avesse mai vissuto.

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Certo, qualcuno potrebbe anche iniziare a borbottare che forse la motivazione è che non siamo tutti sulla stessa lunghezza d’onda dell’eccentrico Xavier Dolan, all’apparenza immensamente soddisfatto dei risultati artistici da lui prodotti in quest’ultimo periodo. Ma lasciamo perdere.

Scadente e dozzinale, il debutto hollywoodiano del canadese pecca totalmente di quel realismo che, presente in tutti gli altri lavori del giovane canadese, dovrebbe lasciare uno spiraglio alla credibilità e alla conseguente possibilità dello spettatore di empatizzare con la materia trattata, con i personaggi descritti, con le situazioni mostrate. Come può uno spettatore credere che il giovane Rupert Turner possa essere un bambino reale, esistente, in carne ed ossa? Come può un undicenne –ed è universalmente riconosciuto che, a undici anni, si è ancora bambino, nonostante sembri che Dolan questo non riesca proprio a capirlo– scrivere discorsi colmi di un’emotività convincente, razionale, ed estremamente controllata? Come più un undicenne improvvisare discorsi che, degni di un Cicerone, non riuscirebbe mai a costruire nemmeno l’adulto più esperto, più prolisso e più retorico?

La mia vita con John F. Donovan è stato confezionato elegantemente, racchiuso in un involucro di pura bellezza: la sua messinscena sognante e armonica, in cui nulla è fuori posto, è stata resa in maniera pressoché perfetta grazie a quella minuziosità certosina per i dettagli che, da sempre, hanno caratterizzato la cinematografia del giovane. Sarebbe inutile, quindi, sostenere che il film non sia tecnicamente ineccepibile. Eppure che senso e che importanza ha la freddezza della tecnica in un film quando questo stesso film non ha un’anima, quando questo stesso film è stato totalmente e irrazionalmente privato del calore del sentimento?

La mia vita con John F. Donovan sarà nelle nostre sale dal 27 giugno.

 

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