Jon Hopkins: ritratto di un artista della console

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Si avvicina l’Home Venice Festival con tutti i suoi illustri ospiti. Tra loro c’è anche Jon Hopkins. Vediamo insieme i tratti salienti della sua carriera

Nel weekend della seconda settimana di luglio, alcuni fortunati spettatori potranno assistere presso Parco San Giuliano a un concerto del tutto ”singolare”. Quello di Jon Hopkins.

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È infatti noto ad alcuni che i live sono per Hopkins un momento assai catartico, dove egli tenta di esprimere il massimo di se stesso. Le esibizioni dal vivo sono per Hopkins il compimento massimo della sua ventennale carriera. Ma andiamo con ordine.

Gli inizi: Da Imogen Heap ai Coldplay

Come spesso accade nel mondo dello spettacolo, accompagnando un amico ad un audizione, ne rimane coinvolto pure lui. Questo clichè spesso si chiude con l’ingaggio dell’amico-accompagnatore e la sfortuna dell’amico-accompagnato. In questo caso però vengono presi tutti i due, l’uno alle tastiere, e l’altro alla chitarra. Questo amico in questione era infatti Leo Abrahams, un ormai noto produttore discografico che tre anni più tardi (siamo infatti nell’98) offrirà il suo contribuito per la realizazzione dell’esordio di Hopkins: Opalescent.

Finita l’esperienza condivisa con l’amico affianco della cantante inglese Imogen Heap, Hopkins firma per la Just Music e comincia a lavorare ad Opalescent. Il disco si rivela da subito il ”futuro campione per lo stile d’ambiente” (rivista Clash) e allo stesso tempo un notevole campione per il commercio (è possibile ascoltare alcune tracce persino nello stranoto serial Sex and The City). A questo punto egli alterna la professione di session man alla produzione di un suo secondo lavoro, il disco-flop: Contact Note. Le disillusioni arrivano ed egli sceglie di intraprendere la strada del producer, stoppando per un po’ la carriera solista.

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Produce un disco del cantautore scozzese King Creosote e nel frattempo comincia a collaborare con uno dei suoi massimi ispiratori: Brian Eno. In quel periodo Abrahams stava collaborando col padrino dell’ambient e di conseguenza anche Hopkins fu coinvolto. Le jam sessions che ne vennero fuori furono le bozze per i brani di Another Day on Earth, disco di Eno del 2005.

La collaborazione fu così fruttuosa che Eno decise di coinvolgere Hopkins in Viva la Vida or Death and All His Friends dei Coldplay, in veste di coproduttore e arrangiatore. Sue infatti le intro di Violet Hill e Life in Technicolor. In particolare da quest’ultima nacque Light Trough the Vines, estratto del terzo disco di Hopkins nonché sugello di una collaborazione che lo vedrà in tour per due anni al fianco di Chris Martin.

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”Non un mero premi-bottoni” : l’uscita di Insides

Questo l’encomio di un testata giornalistica all’uscita di Insides, suo terzo disco: ”Hopkins non è l’uomo dei preset, ma un fine compositore e un allenato pianista”. È quindi un grande ritorno quello di Hopkins, un musicista che pur non tradendo le proprie radici ambient, ha saputo trarre spunto da ritmi del tutto differenti (come l’elettronica più danzereccia e certi beat dubstep) per creare un sound del tutto riconoscibile.

Le colonne sonore, le collaborazioni e un quarti disco

Torna il trio Abrahams-Eno-Hopkins per la creazione della colonna sonora di The Lovely Bones, toccante film di Peter Jackson, regista assai più noto per il Signore degli Anelli. Appena l’anno seguente (il 2010) sarà Hopkins da solo a comporre la colonna sonora per l’esordio di Gareth Edwars (Godzilla, Rogue one…) Monsters, per il quale si avvalse di alcuni arrangiamenti di Abrahams e Davide Rossi, violinista italiano già collega di Hopkins in Viva La Vida.

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Il fantastico trio non demorde, e sempre nel 2010 esce Small Craft on a Milk Sea, frutto di oltre 100 ore di materiale registrato. Nel 2011 esce Diamond Mine, stavolta da un sodalizio Hopkins-King Creosote che vide i due collaborare nuovamente dopo 4 anni. Tra una collaborazione e una colonna sonora, Hopkins trova il tempo di lavorare al quarto acclamatissimo
disco
.

Immunity
, uscito precisamente 6 anni fa, segna la definitiva svolta di Hopkins nel mondo dell’Intelligent Dance Music. In questo disco riesce a costruire delle ”squisite mini-sinfonie” (MixMag), ”notevolmente viscerali” (Pitchfork Media) e ”modernamente classiche” (MusicOMH), risultando uno dei migliori lavori di musica elettronica di quell’anno. Il videoclip del singolo Open Eye Signal vince addirittura lo UK video music awards.

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Di nuovo i Coldplay. Poi 4 anni di attesa

In perfetto stile Hopkins, anche il 2014 si rivela un anno pienissmo di attività. Ritorna al fianco di Chris Martin nella co-produzione di Midnight e rilascia un EP contenente alcuni ”scarti” di Immunity. Esclusi questi due lavori, i fan dovranno aspettare altri 4 anni estenuanti anni prima di vederlo ritornare in veste solista. Ma l’attesa viene immensamente ripagata.

Il 4 maggio del 2018 viene pubblicato Singularity, un disco dalla grande complessità che ripercorre attraverso le note il procedimento artistico che si è reso necessario per la sua creazione. Lo stesso Hopkins in un intervista ci dice che l’iniziale difficoltà di composizione si è riflessa in maniera aggressiva nella prima parte del disco, mentre verso il finale tutto va man mano purificandosi. La seconda parte del disco è infatti il riflesso dell’ultima parte delle lavorazione, quella in cui la musica fluiva da sè in maniera semplice e naturale.

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Singularity è la realizazzione di un’idea covata per 13 anni. La volontà di un artista che ama mettersi in gioco che si concretizza attraverso innumerevoli collaborazioni (in Feel first life, oltre ad un coro di ben 15 voci, furono coinvolti anche un amico di Hopkins e sua moglie, che ”partorì” il titolo della canzone). L’ennesimo ”passo successivo” di un artista che non ama mai adagiarsi, come egli stesso ci confessa.

Un consiglio spassionato

Abbiamo visto insieme il lungo percorso di un vero artista, non un qualunque manipolatore di suoni digitali. È per questo che invitiamo quei lettori che parteciperanno al festival di godersi il più possibile l’esibizione di Jon Hopkins, senza distrarsi con dispositivi di qualsivoglia natura. Perché Jon Hopkins, nella sua musica, inserisce tutto se stesso. E un suo spettacolo è unico, e irrepetibile.

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