David Lynch, il regista che vede se stesso nel buio di un teatro

Lynch
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È molto difficile considerare le opere di David Lynch nei più tradizionali schemi di analisi, che siano essi afferenti all’approccio classico o a quello postmoderno. Le sue visioni escono dallo schermo, rompendo le idee tradizionali di cinema. Configurandosi come delle vere e proprie esperienze dell’io, i film di Lynch sono complesse successioni di immagini, intuizioni, sensazioni, suoni e relazioni alogiche che li assimilano all’atmosfera dei sogni. Così, creando questi mondi onirici, riesce ad inglobarci nelle sue visioni, proiettandoci all’interno della paradossale pellicola.

Giocando sul rapporto tra vero e falso, illusione e realtà, tra diversità e identificazione, sul soggettivo e l’oggettivo, Lynch crea delle opere che trascendono i parametri classici di oggettività e soggettività. Questo perché Lynch estranea i protagonisti delle sue opere dal loro stesso dramma, rendendo noi i soggetti propri della rappresentazione, a cui spetta il compito di riordinare in un quadro d’insieme le percezioni che riceviamo. Come avviene però questo difficile ribaltamento dei rapporti di percezione?

Cercare un denominatore comune alla produzione di Lynch può risultare forzato

Anzi, certamente sarebbe vano il tentativo di dare una forma generale allo spirito di un artista magmatico e visionario. Ci torna utile però una frase della protagonista di Inland Empire:

“Quello che seguì alla morte di mio figlio, devo dire, fu un periodo piuttosto brutto. Guardavo le cose che erano intorno a me e io che stavo lì nel mezzo…Le guardavo come nel buio di un teatro

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Nel delirante mosaico di parallelismi di Inland Empire questa frase viene detta da Nikki nel criptico momento in cui assiste alla sua vita attraverso lo schermo nella sala di un cinema. Il “teatro” in cui osserva la sua vita si fa rappresentazione, e lei si fa spettatrice; una metafora che lega l’ultimo lavoro di Lynch al suo esordio, tracciando una possibile traiettoria che attraversa tutta la sua produzione.

Se accettiamo la seguente definizione di rappresentazione:

Processo mediante il quale un contenuto di percezioni, di immaginazioni, di concetti, si presenta alla coscienza, e lo stesso contenuto rappresentativo.

non siamo lontani da quei sogni che nei film di Lynch sono spesso interscambiabili con il reale. Con semplici traslazione semantiche il teatro diventa così il luogo eletto della finzione: riecheggia il Buñuel de Il fascino discreto della borghesia. Il teatro come tempio della rappresentazione, ideale termine medio e di raccordo tra multiple realtà possibili che si fanno racconto di un’identificazione impossibile, ma che Lynch sovrappone l’una sull’altra secondo quella logica additiva che porta direttamente all’anarchia formale di Inland Empire.

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In Eraserhead questa congiunzione è evidente

Henry fugge dalla sua angosciante vita genitoriale nei suoi sogni, che si svolgono tutti in un piccolo teatro nel termosifone. Qui conosce una sorta di angelo custode, che rappresenta la proiezione della sua ricerca della tranquillità. Ãˆ l’angelo a schiacciare gli spermatozoi di Henry, metafora della sua volontà di sopprimere il prodotto del suo seme, causa di tanta angoscia. “In heaven everything is fine” canta questo bizzarro personaggio, insinuando in Henry il germe della follia.

Capisce che l’unico modo per salvarsi è uccidere l’inquietante creatura che è suo figlio. L’intuizione proviene da quel sogno in bilico sulla realtà, e sul palco del teatro avviene l’identificazione tra Henry e il mostro. Nel sogno proietta tutta la sua nevrosi, generando  terrificanti visioni che si ripercuotono anche sulla sua vita reale.

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Velluti blu, teatri impossibili ed eterni silenzi

Similmente accade in Mulholland Drive. La scena chiave di giunzione tra le due macrosezioni del film avviene in un teatro, il Club Silencio, dove Rita e Betty assistono alla rappresentazione del concetto stesso di finzione. La scelta poetica di Lynch qui è ancora più forte, perché questo show in cui “non c’è la band”, “la musica è registrata” è il simbolo della struttura illusoria che permea la prima parte del film.

Infatti poco dopo il sogno inizia a sgretolarsi. Nella realtà di Diane e Camilla ritroviamo gli stessi personaggi, le stesse trame e gli stessi eventi, ma rimescolati su diversi piani spaziali, temporali e di significato. Le due sezioni del film sono quindi in rapporti rappresentativi l’una con l’altra, e a raccordarle vi è una sequenza in un teatro in cui per altro le protagoniste vengono estromesse dalla storia e rese spettatrici.

Le dominanti blu del Club Silencio ci costringono a fare un passo indietro a quel Blue Velvet indebitamente dimenticato. Lynch nutre evidentemente una sincera e profonda ossessione per le arti perfomative. Non è forse Velluto Blu un chiarissimo esempio di questo genuino teatro che si trasforma e trasforma? Gli innumerevoli esempi di innesti nel suo cinema sono davvero gli sbuffi magmatici di uno spirito tumultuoso, che si è versato per una vita in tutte le arti, e per il quale si potrebbe parlare tranquillamente di gesamtkunstwerk

Più complessa è la drammaturgia onirica di Lost Highway

Il palco su cui Fred si esibisce con il suo sassofono all’inizio di Strade Perdute è l’ennesimo luogo di incontro di realtà possibili e verosimili, ma allo stesso tempo incompatibili e assurde. Così, prima di iniziare a vagare sul nastro di Möbius, Fred non può che contemplare la tenda rossa della sua camera, e questo sipario sul muro assume quasi un valore di simbolo iniziatico, di rito propiziatorio al film vero e proprio.

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E se saltiamo direttamente all’ultima, incredibile opera di Lynch, ritroviamo tutto ciò elevato dichiaratamente a stilema: per legare i 18 episodi di Twin Peaks – The Return, Lynch sostituisce ai titoli di coda su black screen delle performance musicali in cui i protagonisti della storica serie si fanno pubblico.

Non possiamo però che citare, su tutti, l’ottavo episodio. Ancora mondi sospesi l’uno sull’altro, collegati da palcoscenici, platee e sipari, mentre Il Gigante guarda esplodere la bomba atomica su uno schermo in una delle sequenze più memorabili dell’intera cinematografia di David Lynch. Ma non è forse la stessa loggia nera un grande proscenio limitato da un sipario?

In tal senso Inland Empire si può considerare l’apice di questo percorso di straniamento. Non solo per la scena chiave in cui Nikki assiste alla sua vita tramite lo schermo del cinema-teatro, ma anche perché è tutto il film ad essere una grande allegoria della performance e della rappresentazione. Memorabile la scena in cui, dopo diverse visioni di vite parallele, la protagonista torna ad essere l’attrice sul set di On High in Blue Tomorrows mentre il suo personaggio, Susan Blue, muore sulla Walk of fame.

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I personaggi di Lynch sono “il centro e la circonferenza” della narrazione

Sono il centro “produttivo” di tutte le percezioni e illusioni di cui siamo partecipi, ma non ne sono il polo unificatore in senso kantiano. Resi estranei attraverso questi procedimenti, diventano pubblico insieme a noi, del loro spettacolo. Tocca a noi riordinare secondo i criteri della nostra interiorità tutte le immagini e i suoni di cui siamo partecipi, e attribuirgli un significato.

Nel finale di Mulholland Drive torniamo così proprio nel Club Silencio, in questo teatro dove abbiamo appreso l’illusione sottesa alla realtà, trasformando il film in una rappresentazione fittizia di se stesso. È la capacità percettiva dell’uomo ad essere messa sulla soglia critica. Lynch ha reso così ogni sua opera una complessa esperienza metacinematografica e filosofica, un enorme teatro dell’esistenza.

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