Colossal – Il monster movie indie distribuito da Netflix

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Un monster-indie-movie che mescola i kaiju con le dipendenze e il dramma psicologico

Volendo dare una definizione puntuale, sintetica, ma sommaria è così che potrebbe essere riassunto Colossal, l’ultimo lavoro di Nacho Vigalondo, regista cantabriano che si è fatto conoscere dal pubblico principalmente per Timecrimes, piccola perla del cinema di fantascienza.

Colossal non è un colossal, è esattamente l’anti-colossal. Nessun grande budget, nessuna sfarzosità nelle scenografie e tanto meno nella CGI, nessun nome altisonante nel cast se non quello di una Anne Hathaway in cerca di riscatto, che dopo aver legato il proprio nome a quello di Nolan per un paio di film, è tornata a recitare in commedie non troppo esaltanti come Lo stagista inaspettato, dove con De Niro ha condiviso la triste sorte di trovarsi in un film scritto e diretto da Nancy Meyers, una specie di Boldi-De Sica d’oltreoceano. Ed il riscatto la Hathaway lo ottiene, grazie all’immersione in quest’universo indie contaminato da fantascienza creato da Vigalondo, che confeziona per l’attrice un personaggio semplice e divertente, esaltandone le qualità.

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Colossal apre con un doppio incipit

Uno è il classico intro del monster movie, con l’ombra di un misterioso kaiju che incombe su Seoul. Il secondo invece ci accompagna in quello che sarà il mood principale dell’opera, l’indie movie, sul quale Vigalondo ironizza citando la colonna sonora e Wes Anderson per bocca di Gloria (Anne Hathaway), una giovane donna in fuga da una relazione fatta a pezzi dalla propria dipendenza dall’alcol, che torna nella sua città natale per ritrovare se stessa. Gloria incontra Oscar, un vecchio amico d’infanzia che adesso gestisce il bar ereditato dal padre e che decide di assumerla col proposito di aiutarla ad ambientarsi e guadagnare qualche soldo.

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Il rapporto tra Oscar e Gloria appare da subito insolito e Vigalondo si diverte a farcelo scoprire un poco alla volta e, sfruttando i vuoti di memoria di Gloria che diventano blackout anche per lo spettatore, lo muta gradualmente, fino a renderlo palesemente negativo. Oscar inizia ad avere manie di controllo e, stimolato dall’alcol, libera il proprio mostro: violento, narcisista ed estremamente istrionico. Gloria allo stesso tempo opera un’evoluzione inversa, cercando di limitare le proprie pulsioni più immature ed incoscienti, prova a rinchiudere il proprio mostro in una prigione.

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Il vero mostro, il kaiju, irrompe nel film quasi sbadatamente, nella totale ignoranza della protagonista

La Toho, la casa di produzione cinematografica giapponese che detiene i diritti di Godzilla, nel maggio 2015 citò in giudizio la produzione di Colossal per la somiglianza del kaiju col celebre mostro. Una buona occasione per stare zitti andata persa. Già perché quello di Vigalondo è un meraviglioso omaggio. Nell’ampio ventaglio di elementi offerto dal fantasy e dalla fantascienza col quale il regista spagnolo poteva scegliere di misurarsi per realizzare il suo film, lo sguardo si è rivolto ai kaiju.

Ambizione è il termine che può suggerire, non certo plagio.

Il più grande merito di Vigalondo infatti, ribadito da tutti coloro che hanno apprezzato il film, è stato quello di riuscire ad amalgamare due generi diametralmente opposti, come il moster movie alla Godzilla (ben lontano stilisticamente da quel capolavoro che è The Host di Bong Joon-ho), saturo di grandezza, pregno di enormità, abbagliante e spettacolare, con l’indie, un genere che fa della povertà tecnica il proprio fiore all’occhiello. Come sempre, quando si riesce nell’impresa di fondere due generi, si ottiene qualcosa che esalta entrambi.

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In questo caso Vigalondo ha consegnato al movimento Indie un lasciapassare per tentare l’avventura in nuove ambientazioni, oltrepassando i propri confini estetici, e al monster movie un’identità tematica ed un introspezione psicologica di cui spesso tali opere sono prive o abbozzatamente fornite.

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Cosa vuole dirci Vigalondo?

A volte ci convinciamo o ci convincono che il nostro agire debba rientrare in un preciso schema suggeritoci dalla società. Ma come ci raccontava Donnie Darko (uno degli archetipi della fantascienza indie) non è tutto bianco o nero, ci sono delle sfumature. Ognuno di noi ha un lato oscuro. E rinchiudere lo spettro delle emozioni umane in un dicotomico senso del giusto e dello sbagliato è sciocco oltre che limitante. A volte bisogna imparare a convivere con il proprio lato oscuro, talvolta può essere saggio scegliere di perdere il controllo. Gloria capisce così che è dentro di sé che deve trovare la forza per reagire ai suoi stessi incubi.

Il finale ironico

L’ultima battuta del film ci ricorda come spesso sia proprio la società che ci circonda ad indurci in quegli stessi errori di cui poi si farà giudice e carceriere. Con le ultime parole Vigalondo mette a nudo l’ipocrisia che circonda ognuno di noi.

In conclusione Colossal è l’ennesima scommessa vinta per Netflix, che pesca questa piccola produzione canadese e la distribuisce in tutto il mondo, permettendoci di apprezzare l’arte di un regista, Vigalondo, ben lontano dai riflettori Hollywoodiani.

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