L’imbalsamatore – La recensione

L'imbalsamatore
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Il 17 maggio uscirà nelle sale italiane Dogman di Matteo Garrone, ispirato all’efferato fatto di cronaca del “delitto del Canaro”, avvenuto a Roma nel 1988. Non è la prima volta che Garrone si occupa di un progetto del genere: il film può infatti essere identificato come il terzo capitolo di un’ideologica trilogia con al centro la cronaca nera, iniziata nel 2002 con L’imbalsamatore e proseguita nel 2004 con Primo amore. Oggi vi parleremo del primo titolo.

L'imbalsamatore
Domenico Semeraro

Quarta fatica cinematografica del regista, il film è ispirato alla vicenda del “nano di Termini”, prendendosi tuttavia delle libertà rispetto i fatti reali, come i nomi dei protagonisti, l’ambientazione e alcune dinamiche della storia. La vittima del delitto fu il nano Domenico Semeraro, tassidermista di professione, o in termini più semplici imbalsamatore. Semeraro apparve come controfigura nel capolavoro di Lucio Fulci Non si sevizia un paperino, nelle scene in cui il piccolo Michele è ripreso in controcampo davanti Barbara Bouchet distesa nuda sul divano. La sua fu un’esistenza travagliata e costellata di legami con la criminalità organizzata e adescamenti di giovani uomini che egli ricopriva di regali in cambio di favori sessuali (Semeraro era bisessuale). Fu ucciso il 25 aprile 1990 dal giovanissimo Armando Lovaglio, suo protegé appena ventunenne, al culmine di una morbosa relazione sfociata gradualmente nell’ossessione.

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La storia si apre con il protagonista della vicenda, qui ribattezzato Peppino Profeta, che nello zoo in cui preleva le carcasse per i suoi lavori fa la conoscenza di quello che diventerà l’oggetto delle sue maniacali attenzioni: il giovane Valerio (Valerio Foglia Manzillo). Peppino è interpretato dall’attore napoletano realmente affetto da nanismo Ernesto Mathieux, che grazie alla sua interpretazione ottenne grande notorietà, culminata con la vittoria del David di Donatello e del Globo d’oro come miglior attore protagonista. La sua è una maschera tragicomica dotata di enorme profondità psicologica, in grado di suscitare a fasi alterne sia l’empatia che l’odio dello spettatore. Peppino si dimostra subito estremamente gentile verso il giovane, che invita a casa sua per mostrargli i suoi animali imbalsamati, e poco dopo gli propone di venire a lavorare per lui. Offerta che il ragazzo accetta di buon grado, visto il cospicuo stipendio e la sua difficile situazione familiare, e da qui tra i due nasce un rapporto molto stretto, quasi paternale, anche se a tratti decisamente ambiguo.

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L'imbalsamatore

Il film possiede delle connotazioni noir molto efficaci.

Noi sin dall’inizio veniamo catapultati nei panni di entrambi i protagonisti, non conoscendo nulla del passato e della personalità di ciascuno di essi. Con l’incedere della trama entriamo progressivamente in possesso delle informazioni che ci servono per arricchire il loro profilo psicologico, e acquisire coscienza sulla natura morbosa del rapporto che si va a creare. Mathieux dà vita a un personaggio ricco di sfaccettature, che nonostante il suo aspetto esercita sul giovane un grande carisma, per via dei suoi modi decisi e signorili e per la sua apparente magnanimità.

Intuiamo da subito l’attrazione che egli nutre verso Valerio e che non manca di palesare attraverso un sottile gioco di gesti e atteggiamenti, ma il loro legame non si limita a un semplice rapporto di do ut des: Peppino diviene una figura di riferimento per il giovane, il quale nutre verso di lui un grande rispetto. In questo modo gli è anche facile nascondergli i suoi legami con la malavita. L’equilibrio tra i due si mantiene relativamente stabile finché non irrompe sulla scena Deborah (Elisabetta Rocchetti) che centralizzerà gradualmente le attenzioni di Valerio con grande disappunto di Peppino, il quale tenterà di tutto pur di non perdere il suo protegé.

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C’è da dire che la formula usata da Garrone, che unisce le caratteristiche del cinema vérité e quelle narrativo classiche, rispetto i suoi titoli più recenti qui non è ancora perfettamente equilibrata.

E’ presente qualche sbavatura nella causalità del racconto, con alcune transizioni che non appaiono perfettamente chiare, e qualche passaggio forse eccessivamente lungo. Soprattutto, in alcune occasioni la recitazione naïf di Elisabetta Rocchetti sembra non seguire la giusta logica delle reazioni umane, anche nel caso di scene cruciali.

Alla costruzione delle atmosfere contribuiscono sensibilmente la semplice ma efficace fotografia, costantemente improntata su toni cupi ed orientata verso colori caldi, con una grande quantità di scene dalla luminosità fortemente rarefatta, e la colonna sonora di stampo noir malinconica e ricca di fiati curata dalla Banda Osiris, anche se a tratti risulta leggermente stancante.

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Da segnalare nel film la presenza di Bernardino Terracciano, vero boss camorrista condannato all’ergastolo il 13 maggio 2016 per un duplice omicidio avvenuto nel 1992, il quale ha recitato anche in Gomorra dello stesso regista. Garrone è famoso per inserire nei suoi film figure senza trascorsi recitativi provenienti dagli ambienti malavitosi che si prefigge di descrivere. E se da un lato questa può essere vista come una scelta di dubbia moralità e irrispettosa verso le vittime, dall’altro è innegabile che il valore sociologico e descrittivo di tali vette di realismo molto difficilmente può essere ottenuto tramite la recitazione classica.

Un film non perfetto e con qualche disaccortezza, ma che denota in tutto il suo splendore la perizia dietro la macchina da presa e la capacità di raccontare il malsano di quello che nell’attualità è a tutti gli effetti uno dei regisi essenziali per il nostro patrimonio artistico. Assolutamente consigliata la visione.