The Leftovers 3: un finale ad opera d’arte [Spoiler]

The leftovers
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Ad aprile ci avventurammo in una riflessione sulle prime due stagioni di The Leftovers, per prepararci all’attesa conclusione avvenutasi tra giugno e luglio. Dopo aver visto, amato, glorificato queste ultime otto puntate, ecco la nostra riflessione al riguardo.

Si è concluso The Leftovers e come anticipò Damon Lindelof non c’è stata nessuna spiegazione per gli eventi soprannaturali, né conferma della veridicità delle esperienze vissute dai personaggi. The Leftovers non è trama ed intreccio, ma introspezione, riflessione e fede. La serie parla dell’esistenza e della fine di essa, non usiamo la parola morte, poiché, apparentemente, non esiste morte in The Leftovers, sia per l’elemento pluridimensionale che la storia fa intendere, sia per la figurata assenza di morte rappresentata dal rifiuto dei personaggi a lasciar andare i propri cari ormai scomparsi, facendoli rivivere attraverso il ricordo perpetuo e il morboso attaccamento alla perdita.

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Di ciò che è appena stato detto ne abbiamo già parlato nell’articolo precedente. Interessante, ora, è cercare di analizzare l’elemento pluridimensionale, che si presenta come un mix di fantascienza e religione.

Parliamoci chiaro, la scoperta di un universo parallelo è stato un pugno allo stomaco, ma la sua accennata ontologia è ancora più sconcertante, profonda. L’allusione che gli scomparsi siano andati in una dimensione in cui vivono la propria vita normalmente, facendo, però, i conti con il fatto che il loro mondo ha perso il novantotto percento dei suoi abitanti, ovvero gli abitanti del mondo principale di The Leftovers (i nostri eroi per intenderci), lascia spiazzati e apre ad un nuovo concetto: la reciprocità. Quest’ultima condizione è essenziale sia per il dolore che per la gioia, l’altra dimensione è l’altro piatto della bilancia, l’essenziale per l’equilibrio, non si prova gioia da soli, non si prova dolore da soli, c’è sempre un corrispettivo sentimento dell’altro in cui rispecchiarsi e trovare conforto (e confronto). Questo è il nodo centrale a nostro parere, dimostrato dal fatto che nella dimensione parallela le poche persone rimaste hanno fatto muro alle perdite, hanno trovato calore nei pochi prossimi, ed è un mondo più felice a detta di Nora, viaggiatrice dimensionale grazie ad un macchinario futuristico capace di disintegrare e far ricomparire le particelle in altri spazio-tempo. Fortemente accomunati dalla comune triste sorte, gli abitanti del nuovo mondo, tra cui anche i figli e il marito di Nora, si aggrappano gli uni agli altri, poiché si è in pochi e quindi ci si unisce, la perdita e l’amore per l’altro sono il collante che tiene in piedi queste difficili esistenze. Proprio questa condizione spinge Nora ad abbandonare la dimensione in cui vive la sua vecchia famiglia, ormai di nuovo felice grazie ad una nuova vita, l’abbandona perché capisce che quello non è il suo posto, la sua reciprocità non deve cercarla lì ma nel suo mondo, il suo specchio emotivo non è la dimensione parallela, il suo specchio emotivo è Kevin, e lo sceriffo non si trova dall’altra parte ma nel mondo principale, non c’è bisogno di viaggiare nello spazio-tempo, si necessita solo di vivere con l’altro nel proprio spazio-tempo, nella propria realtà.

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Ma l’ontologia della nuova dimensione non si esaurisce agli scomparsi, ma addirittura contiene in sé anche il destino dei morti, dei veri deceduti. Apparentemente, tutti i deceduti della serie (Patti Levin,  Evie Murphy, lo sceriffo australiano omonimo di Kevin, i bimbi adottati) sono tutti presenti nella dimensione parallela e tutti loro hanno uno scopo ben preciso, un ruolo da interpretare. Diremmo una bugia se vi dicessimo che abbiamo capito esattamente cosa ci facciano i morti nell’altra dimensione in cui vive il due percento scomparso, ma, come detto sopra, apparentemente la morte non esiste, esiste solo il viaggio tra un piano esistenziale e l’altro. Non è da escludere che quest’ultima sia ancora un’altra dimensione, ipotesi coadiuvata dal fatto che tale mondo verrà distrutto da un olocausto nucleare, mentre quello del due percento scomparso sembra esistere anche decenni dopo.

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A proposito di viaggi, e qui arriviamo al protagonista Kevin, s’intuisce che il viaggiare da un mondo all’altro attraverso una temporanea morte sia possibile e che non solo Kevin riesce a farlo, ma tutti quelli che si rendono conto del fatto che l’aldilà è vero, concreto e non un paradiso, un inferno o un purgatorio, ma semplicemente un altro mondo, solo in questo modo si può viaggiare tra i due universi. Kevin lo capisce confrontandosi con il suo doppio nell’ultimo viaggio, ed entrambi sono fermamente convinti di non voler viaggiare più tra le dimensioni, che è giunto il tempo di tornare a casa, di smettere di allontanarsi da essa e di cercare di accettare casa propria come il proprio destino, come propria àncora di salvezza.

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Con questa epifania, Kevin fa cadere il castello religioso con cui la serie cerca di sviare lo spettatore. Kevin, ritenuto il Messia dal reverendo Matt (che scrive un nuovo vangelo basato sulle gesta dello sceriffo), con la sua mortalità smonta l’impronta giudaico-cristiana in pochissimo tempo. Certamente regna un ordine nell’universo di The Leftovers, ma quest’ordine non è mandato avanti dalla Trinità o da Jahvè, non sappiamo da chi, ma certo non è assimilabile totalmente con le religioni classiche. A favore di questa spiegazione resta il discorso di Matt (ammalato di tumore) con il presunto Dio che viaggia in crociera, in realtà un uomo che come Kevin è resuscitato ma che dopo essere tornato ha avuto la convinzione di essere il dio di tutte le cose. Ovviamente non si  può escludere a priori, data la percepibile aura mistica di The Leftovers, che quell’uomo non sia davvero un essere superiore, ma più che la sua natura, c’interessa quello che dice, e nel confronto con Matt, il presunto dio ne dice di cose interessanti, ma una ne appare più potente e terribile, ovvero il fatto di ammettere che lui è l’autore delle scomparse e che lo ha fatto così, semplicemente perché poteva farlo. Il caos è il frutto del capriccio di Dio secondo questo punto di vista, nel caso volessimo credere a quell’uomo in crociera che sostiene di essere l’Onnipotente.

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Al di là dell’elemento soprannaturale, che non approda, mai, ad un vero quadro completo, ad una reale spiegazione, possiamo dire, invece, che il percorso dei personaggi trova la sua fine, il suo sospiro di sollievo. Riprendendo i fili dell’articolo precedente e ricollegandoci all’epopea umana vista attraverso le cinque fasi del lutto, possiamo dire che i personaggi, alla fine, arrivano alla tanto agognata accettazione, ultima fase, che arriva a dare sollievo agli animi molti anni dopo gli accadimenti, dopo un viaggio tortuoso, fatto di delusione e ricadute, ma che a chi non si arrende alle sfavorevoli condizioni esistenziali arriverà come un sollievo in qualsiasi momento della vita, né troppo tardi né troppo presto.

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Altro punto di forza sono i confronti, ovvero i dialoghi tra i personaggi. Oltre ai già accennati, quello di Matt con il presunto dio e quello di Kevin con il suo doppio, quasi tutti i personaggi hanno la possibilità di dire tutto ai propri affetti, ogni rapporto viene chiarito, ogni diatriba appianata. I personaggi si aprono, affrontano i propri limiti e le proprie paure attraverso un perpetuo confronto con l’altro. Come avevamo previsto l’elemento umano sovrasta completamente quello soprannaturale, dimostrandoci come la psicologia e l’esistenzialismo, inteso come corrente filosofica, possano aver molto più da dire di un qualsiasi mondo inventato o cosmologia affascinante.

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Non meno importante è la resa tecnica della messinscena, che azzardiamo definire praticamente perfetta. Ogni movimento di macchina è al servizio della filosofia della serie, ne rimarca la sua dualità di fondo, l’esistenza divisa tra il particolare e il generale, tra ciò che abbiamo sopra le nostre teste e ciò che abbiamo sotto i nostri piedi. Tale impostazione è percepibile nel cambio quasi scientifico tra campi lunghi che valorizzano i paesaggi di una splendida Australia e i primi piani dei personaggi, passaggi repentini tra macrocosmo e microcosmo. Le immagini padroneggiano sulla sceneggiatura, non c’è approccio didascalico, le scene si esprimono attraverso la geometria, i colori e la luce. Quest’ultima usata magistralmente sia per valorizzare il lato ritrattistico dei personaggi sia per accentuare le atmosfere degli sterminati paesaggi australiani.

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Superfluo soffermarci sulle prove attoriali, dato che, come nelle precedenti stagioni, il livello è altissimo, la drammaticità all’altezza di grandi tragedie. Piccola menzione, però, va fatta per tre attori, ossia Christopher Eccleston (Matt), Carrie Coon (Nora) e Scoot Gleen (Kevin Garvey Senior), che superano se stessi diventando le colonne portanti che reggono il tempio The Leftovers, tempio, ovviamente, rappresentato da Justin Theroux (Kevin).

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Infine, vanno menzionate le musiche. La splendida colonna sonora di Max Richter si alterna a svariate canzoni, pietre miliari della musica internazionale. Espediente interessante in quest’ultima stagione è il cambio di canzone in ogni opening di ogni singola puntata, si parte con l’assenza di sigla della prima puntata, per poi passare a  brani più dinamici. Nel mezzo della serie, poi, troviamo dei veri brani sommessi e claustrofobici che danno pathos al momento difficile che stanno passando i personaggi, per poi terminare con Let the Mystery Be di Iris DeMent, la canzone che apre tutta la seconda stagione di Leftovers, e a cui è dato il compito di esprimere il senso profondo di tutta la serie. E alle cui parole lasciamo la conclusione di questa riflessione, aggiungendo che The Leftovers è sicuramente una delle serie tv più belle di sempre, e, probabilmente, tra le più importanti in termini artistici e filosofici.

Ci chiediamo tutti da dove veniamo/Ci chiediamo tutti che fine faremo quando arriveremo alla fine/Ma nessuno lo sa con certezza, quindi per me è lo stesso/Io penso che accetterò il mistero