The Great Wall – La recensione

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Oggetto di turisti provenienti da tutto il mondo, la Grande Muraglia, si srotola sulle montagne a perdita d’occhio. Con l’immagine della maestosa costruzione si chiudeva Hero (2002) la prima incursione nel wuxiapan (il “cappa e spada” cinese) di Zhang Yimou. Con la promessa di un Impero unito, ma soprattutto al sicuro dai nemici interni e da quelli esterni, tramite quel gigantesco muro di pietra. Quasi novemila km di torrioni, alte mura, dal deserto al mare, voluta dall’imperatore Quin Shi Huang nel 215 a.C. per proteggere il Paese dalle incursioni delle tribù provenienti dalla attuale Mongolia e Manciuria. Quin, lo stesso che viene risparmiato da Senza Nome alla fine del film in nome di una pace e di una sicurezza, sotto un unico Cielo.

Proprio quella costruzione, mostrata nella sua reale integrità, diviene oggetto di fiaba per un altro esordio di Yimou. Quello in lingua inglese, con The Great Wall, uscito al cinema il 23 di Febbraio. Ad essere sinceri, la prima volta che ho visto il trailer, mesi fa, ho avuto una serie di perplessità. Non soltanto per via della scelta di prendere un “bianco” come protagonista (Matt Damon), ma di creare un mondo cinese totalmente atipico, funambolico e vicino, purtroppo, a una visione troppo esotica del Giappone dei samurai in 47 Ronin di Carl Rinsch (2013). Detto questo ignoravo, momentaneamente, il regista di The Great Wall. Poi quando ho scoperto che l’autore era Zhang Yimou ho avuto una reazione duplice, nell’arco di poco tempo: dapprima incredulità che il regista del devastante (in senso buono) Lanterne Rosse (1991) o dell’elegante La foresta dei pugnali volanti (2004) fosse coinvolto in una simile baracconata, sicuramente per un mucchio di soldi; più lucidamente ho riflettuto che è anche l’autore del tragico e barocco La città proibita (2007) e dell’intenso I fiori della guerra (2011).

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Quindi i due principali dubbi, cioè la scelta del protagonista e l’estetica del film, si sono dissolti nel giro di pochi mesi. Di certo, Christian Bale era più contestualizzato (un becchino occidentale, John Miller, che aiuta delle donne cinesi nel corso del Massacro di Nanchino ad opera delle truppe giapponesi nel 1937), ma anche Matt Damon, stranamente, viene messo nella cornice giusta perché la sua presenza non sia totalmente estemporanea. Egli e Pedro Pascal (Oberyn Martell nella quarta stagione di Trono di Spade) interpretano due mercenari in missione in Cina per trafugare in Occidente della polvere da sparo. Ma vengono coinvolti, loro malgrado, nella battaglia che imperversa nei pressi della Grande Muraglia, per difendere il Paese da un misterioso nemico che si nasconde nella nebbia, al di là del muro.

Come vederlo e come giudicarlo questo film senza dire troppo del film stesso? Per prima cosa partendo da un presupposto. Yimou, altrimenti un regista molto attaccato a una sorta di contemporaneo neorealismo quando parla dell’attualità del suo paese (Non uno di meno, La strada verso casa, 1999), qualora si cimenta con il film storico, fa esattamente il ragionamento opposto.

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Tutto è funambolico, dai duelli, ai costumi, alle scenografie, raccontando un passato reale e idealizzato, fortemente epico (soprattutto Hero e La città proibita), ma che non dimentica mai quello che è il cuore di tutto il suo cinema, ovvero i personaggi. Anche nelle sequenze più colossali, quando si muovono centinaia di comparse in grandi scene di massa, tutto si riconduce, alla fine, verso i caratteri principali, verso degli ideali che muovono i suoi protagonisti. Rendendo il prodotto poetico , epico, barocco, ma mai fine a sé stesso. Anzi rende il barocco una parte quasi superflua della narrazione, anche se a una visione distratta potrebbe risultare il contrario.

Con The Great Wall tutto questo non fa eccezione, aggiungendovi un elemento ulteriore. C’è lo sguardo esterno dello straniero: prima inorridito, poi affascinato, infine coinvolto. Quindi il film lo si potrebbe vedere quasi come il resoconto di un Occidentale in un Paese con i suoi misteri, i suoi intrighi, la sua cultura altra. Tutto con il respiro di un resoconto di viaggio medievale con tanto di ancestrale bestiario allegato. Un mondo che l’Occidentale non riuscirebbe a concepire altrimenti, fuori dall’esotismo. Una cultura che noi, un po’ nel corso dei secoli, abbiamo assimilato. Meglio non aggiungere altro. Detto questo, è vero che sembra una baracconata e ha l’estetica di un kolossal medio-hollywoodiano, ma la mano di un autore riesce sempre a dare a un film di questo genere una marcia in più. Anche questo è Zhang Yimou.