The Neon Demon – Recensione + effetti collaterali

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A cura di Carlotta Lattanzi.

Con The Neon Demon, Nicolas Winding Refn attua il (rischioso) tentativo di smascheramento e indagine nelle dinamiche dis-umanizzanti della grande industria della moda. Compie in sostanza un’operazione di metalinguaggio: smantellare il mito della bellezza parossistica (sponsorizzata, in quanto utile a sponsorizzare) attraverso un altro parossismo, quello dell’orrore.

 

Quella di Refn non consiste tuttavia in un’operazione metacinematografica (cinema autoriflessivo – su tutti, si pensi all’esempio offerto da La montagna sacra, capolavoro di sincretismo kitsch ad opera del suo mentore, Alejandro Jodorowsky), quanto piuttosto nell’adozione del linguaggio patinato delle riviste di moda, per sovvertirne l’impatto sul pubblico di riferimento (dunque non un regista che riflette sul proprio ambito, ma che si serve del mezzo cinematografico per tessere una metacritica di più ampio respiro).

Primo film esclusivamente femminile, The Neon Demon non sembra, a ben guardare, costituire una così radicale soluzione di continuità rispetto alle sue produzioni maschili precedenti. C’è un filo conduttore che vi lega la piccola eterea Jesse (Elle Fanning) e la sua demoniaca trasformazione in agguerrita lonza glamour.

 

I protagonisti del primo e del secondo Refn partono in sordina, sono agiti per mano di forze maggiori, incerti sui valori a cui aggrapparsi, incapaci di affermarsi, bombe a orologeria pronte ad esplodere in un percorso ambiguo fra la degradazione e la riconquista del sé. È così per ognuno di questi protagonisti: dalla trilogia di Pusher, a Bleeder, fino al penultimo Solo Dio perdona, dove il percorso di Julian assume le sembianze di vera e propria liberazione edipica e insieme purificazione, sorta di rituale psicomagico, dichiaratamente legato alle influenze di Alejandro Jodorowsky, al quale il film è espressamente dedicato nei titoli di coda.

 

In effetti, i titoli di coda refniani sembrano offrire, anche in questo caso, una chiave di lettura dell’intero film. The Neon Demon si chiude sulla dedica “For Liv”, possibile summa personale del regista a conclusione delle riprese, sorta di ricognizione di valori del marito non perfetto, che sceglie di dedicare la sua opera sulle donne-mostro a una moglie che definisce stupenda: riscoperta dell’autenticità o decisione di cospargersi il capo di cenere?

 

Di certo The Neon Demon, più che frettolosa e misogina sentenza del regista sulla donna, pare essere in realtà il suo primo e personalissimo viaggio, tentativo d’immedesimazione nell’ignoto spazio profondo dell’ “altro da sé”. Un universo distante e controverso, che gli è valso vaghe (sebbene prevedibili) accuse di maschilismo, che peraltro non sono mancate in altri e più vistosi casi, uno per tutti il connazionale Von Trier, con film come Nymphomaniac, ma soprattutto Antichrist, che sembra essere invece il suo più sincero (per quanto goffo) manifesto di solidarietà al mondo femminile.

The Neon Demon è un film quasi esclusivamente femminile, dove i maschi svaniscono nel nulla, comparse utili soltanto a svelare un’ipocrisia che nasce dal basso.

Jesse è a Los Angeles da poco tempo, frequenta un ragazzo di nome Dean (il Karl Glusman altrettanto perfetto come fiacco innamorato contemporaneo in LOVE di Gaspar Noè). Ma Dean è, anzitutto, un fotografo, autore degli scatti che Jesse presenta alla prestigiosa agenzia di moda, dove una talent scout (come da copione, algido Diavolo vestito Prada) decide di firmarle immediatamente un contratto.

Di fronte al successi di Jesse, l’allegria di Dean appare rapidamente eclissata da una patetica e insopprimibile angoscia:

Continuerai a uscire con me quando sarai una top model? Hanno detto qualcosa delle mie foto?

Due domande che Jesse fa discretamente cadere nel vuoto, e che anticipano una risposta fattuale: Dean scomparirà (insieme a tutte le altre figure maschili) poco lontano dalla metà del film. La sequenza decisiva, soluzione di continuità con la lentezza introduttiva è quella del locale dove Jesse si reca, accompagnata da Dean, per un drink con lo stilista Roberto Sarno e le altre due modelle, Gigi e Sarah. Dean, da subito tacitamente collocato fuori luogo dalla mimica e dalla gestica degli altri, aggrappato ai resti di una Jesse già lontana anni luce, cola rapidamente a picco dopo un breve botta e risposta con lo stilista:

Roberto Sarno: La vera bellezza è la più grande ricchezza che abbiamo. Guarda Jesse, senza bellezza, non sarebbe niente.

Dean: Si sbaglia.

Roberto Sarno: Come hai detto?

Dean: Ho detto che si sbaglia.

Roberto Sarno: Ah certo.. vorresti dire che quello che conta è il dentro, giusto?

Dean: Sì, è esattamente quello che penso.

Roberto Sarno: Beh, io invece penso che se lei non fosse stata bella… tu non ti saresti neanche fermato a guardarla.

 

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Riemerge, lapidaria, la verità passata in sordina – per un attimo non ricordiamo che Dean era il fotografo, il primo che vedeva nella bellezza di lei una possibilità di realizzare le proprie aspirazioni. Così, con la verità, Dean è inghiottito nel nulla e sparisce per sempre dal film insieme alle altre figure maschili.

QUI la nostra analisi del simbolismo del film!

Da questo momento, insieme al variare del ritmo (che si fa più serrato e meno dilatato rispetto all’autoreferenza fotografica iniziale), il racconto assume connotati specificamente horror. L’inquadramento di genere è tipizzato attraverso il citazionismo: le alternanze di luci monocrome (anticipate dalle geometrie neon delle sequenze iniziali) si tingono del rosso e violetto di Suspiria; le sequenze conclusive della modella massacrata richiamano le grafiche di Excision (Richard Bates Jr), ma anche quelle jodorowskiane della Montagna Sacra.

La marca registica emerge tuttavia nell’auto-citazionismo, a partire da Solo Dio perdona: le sequenze più crude si svolgono, di regola, nel sensualizzato luminismo rosso-viola dei bordelli tailandesi.

 

Il baluginare delle luci chiare dei set fotografici, le simmetrie e gli specchi col volto di Jesse – gli specchi rotti col volto di Sarah -, che nella prima parte veicolano e insieme sono (puro involucro) il linguaggio, reale protagonista del film (nell’operazione sovversiva che la regia intende – o pretende – di compiere), lasciano spazio nella seconda parte alla casa di cui Ruby (una straordinaria Jena Malone) si prende cura mentre i proprietari sono assenti. Ruby è una truccatrice, s’intuisce già dalle prime scene, perdutamente invaghita di Jesse, contagiata ed estasiata dalla sua bellezza non cosmetica, non plastificata. Non c’è niente di posticcio in lei, e Ruby che costruisce quotidianamente le maschere e le identità nei fuoriquadro dei set fotografici (ma anche nei fuoricampo della vita, – spazi esistenti e tuttavia non visti – gli obitori), ne è magneticamente attratta.

 

Così Jesse, quando il proprietario del D motel dove alloggia si rivela un omicida (grida che provengono dalla stanza accanto, in un suono fuoricampo che potrebbe verosimilmente essere nient’altro che la prosecuzione dell’incubo della ragazza), si rifugia terrorizzata da Ruby. Ma la casa della truccatrice non sarà altro che il cul de sac irreversibile di una catena di eventi disumani, dove le modelle-belve sopracitate cercheranno di appropriarsi della sua inestimabile bellezza (e lei, insieme minaccia e minacciata, eterea Biancaneve armata di coltellaccio, cercherà strenuamente di difenderla).

 

Dal canto suo Ruby, sessualmente rifiutata, si fa terza belva, al fianco delle mefistofeliche e diafane (ma dotate di una certa straniante goffaggine) Gigi e Sarah. L’attrazione sessuale, trasformata dal rifiuto in pulsione irreprimibile e desiderio di profanazione, si consuma così all’obitorio, in un estremo atto di necrofilia su un cadavere truccato, simulacro di JesseRefn indugia (compiaciutissimo nel suo osare l’inosabile), con un piacere tutto metalinguistico: nel feticcio morto e falsificato di cui si abusa è esplicito il riferimento alle copertine di Vogue, al desiderio di essere (belli) e insieme possedere (la bellezza altrui, sessualmente – strategia pubblicitaria della sensualizzazione dell’oggetto).

 

Un processo di morbosa ricerca del bello, che conduce dove la morte è stadio intermedio all’oggettificazione (dunque, al consumo, come oggetto sessuale o pietanza di cui nutrirsi). Il desiderio sessuale di Ruby non è che il contraltare del desiderio vampiristico delle due modelle-scarto, che brevemente uccideranno Jesse per cibarsene. Attraverso un rituale bacchico (che Refn ci risparmia – solo in un primo momento), le due assassine e la compiacente (e insieme melanconica) Ruby si uniscono nella mostruosità di un banchetto cannibale, riassunto in una sequenza limite: nulla è mostrato, ma tutto è intuito (una voracità che non lascia pezzi di corpo, ma solo copiosi rivoli di sangue). Il volto di Jena Malone adagiato nella vasca (lo sguardo annichilito, nel vuoto) fa da contraltare a una macchina da presa che, da sotto in su, spia le due modelle che sotto la doccia si lavano (quasi festosamente) via il sangue di dosso.

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Un rimbalzo di sguardi fra dentro e fuori dal testo filmico, pericolosamente straniante per la sua gradevolezza visiva, montaggio felino di rimandi a una costruzione giocata sul set (gusto per la finzione delle modelle killer), che richiama all’immedesimazione (dunque all’orrore eticamente doveroso) solo nella stanchezza del capo adagiato di Ruby, maschera di sangue ormai quasi coagulato (e anch’esso feticizzato nel suo non essere lavato via).

Del resto, già nelle figure sotto la doccia si delinea una semantica dei corpi che anticipa il finale, con la sagoma di Sarah che sovrasta visibilmente quella di Gigi.

Contro ogni umanità e rimorso, priva del bisogno di vomitare l’orrore, che porta Gigi a compiere un harakiri espiatorio, Sarah, mostro vincente e infuso di bellezza cannibalizzata, divora avidamente anche l’ultimo boccone sgusciato fuori dallo stomaco pentito della collega, per poi inforcare gli occhiali da sole alla volta del successo.

 

Dunque, questa è l’operazione metalinguistica attuata da Refn.

Ma se un metalinguaggio critico raggiunge il suo scopo quando disturba il mondo criticato, è possibile definire The Neon Demon efficace?

Pasolini in La Ricotta ricostruisce quadri di Pontormo e Rosso Fiorentino con comparse che si scaccolano, per screditare una lettura conformistica del sacro, e di fatto scontenta proprio il pubblico che intende criticare (ne sono prova le numerose censure subite). The Neon Demon (a qualche mese dall’uscita nelle sale) sembra invece aver raggiunto lo stesso esito della maggior parte delle operazioni metalinguistiche (soprattutto cinematografiche) contemporanee, finendo per lasciare nella stragrande maggioranza del pubblico l’estasiato gradimento per il patinato che ab origine si proponeva di rendere nauseabondo. Proprio il fatto che si parli di Neon Demon come lavoro di “splendida fotografia” , ne segna dunque il netto fallimento se nelle intenzioni s’intendeva smantellare la fascinazione per un certo linguaggio (non che ogni film possa rivoluzionare le coscienze, ma -s’intende- almeno istillare il dubbio). Viene da chiedersi se quello del metalinguaggio non sia, in questo caso, mero divertissement, in se stesso gioco con le potenzialità linguistiche offerte da solide produzioni. Domanda ancor più legittima se si pensa che Refn, come Von Trier, viene da un cinema come quello danese, che per mancanza di mezzi ha dovuto inventarsi (chi più, chi meno dichiaratamente) Dogma 95, riuscendo a produrre discreti successi a bassissimo budget. Così, Von Trier sul finale di Melancholia indugia e si compiace delle catastrofe grazie agli effetti speciali della Danks Speciel Effect Service; sfrutta l’animazione digitale per creare animali parlanti (basti pensare alla sfortunata volpe nichilista di Antichrist); allo stesso modo, Refn può finalmente usare tutte le luci al neon possibili, può girare a Los Angeles e scegliere le lenti perfette per creare l’effetto patinato delle riviste, mentre nella trilogia di Pusher si doveva limitare a una stanzetta a luci rosse contestualizzata nell’incontro con due prostitute. Insomma, quello che viene prima di tutto sembra essere la fantasia, libera una volta per tutte di esprimersi in un gusto tutto refniano, dove la cura del particolare prende inevitabilmente il sopravvento.

The Neon Demon vale per quel che è, un divertissement orrorifico su un mondo patinato (gioco col mezzo-cinema, al livellamento di ogni imperfezione, ricerca della lente perfetta), che fa un po’ più contenti tutti gli outsiders, ma che in fondo ci prende in giro, e ci dice che non saremo mai abbastanza mostri per ammettere che ci è piaciuto proprio per le sue luci al neon e per i suoi set fotografici. Un Iperuranio mostruoso solo nella classificazione di genere, ben lontano, anche nelle intenzioni, dalle operazioni di sofferto e determinato metalinguaggio critico che, almeno nella storia del cinema, si contano sulle dita di una mano. Se volete approfondire ulteriormente, QUI troverete la nostra analisi del simboliso del film.

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