Rino Gaetano: la folle e troppo breve esistenza del leggendario cantautore

Rino
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Rino Gaetano: vita, passioni e parabola di un artista eccezionale e fin troppo spesso dimenticato

Inizio anni ’90. “Bello ‘sto pezzo“, dice l’amico che sto scarrozzando lungo i viali di Bologna “Lo canta uno che non si chiama Mino Reitano… ma quasi“. “Lo cantava – dico io – Perché saranno almeno dieci anni che è morto, poi si chiamava Gaetano. Rino Gaetano“. “Si, ok dai oh, bello comunque“.

Fuori Roma, verso la metà dei ’70, un ragazzo snello con una voce metallica fa l’autostop nei pressi della capitale; ha una chitarra a tracolla e l’aspetto del cantante o dell’artista di strada. Un’auto lussuosa si ferma per caricarlo. “Ciao sono un cantante, o almeno provo a esserlo – dice con un accento romano unito a una punta di calabrese – devo tornare in città, te dove vai?

Vado anche io a Roma – proferisce il soccorritore – e ormai che ci siamo se vuoi un paio di dritte per il tuo lavoro posso dartele, sai anche io faccio il cantante“. Nel viaggio si dice che il soccorritore, che di nome fa Lucio e di cognome Dalla, indirizzi il ragazzo verso la sede della sua casa discografica.

Perché sai mai che ne possa ricavare qualche cosa di buono, qualche ingaggio e al massimo amici come prima; come prima di averlo caricato, ovviamente. Nato a Crotone e presto, ma non troppo, dirottato in direzione Roma, quella del passaggio di cui sopra, l’artista in divenire cresce pieno di molti sogni ma non di pregiudizi e nemmeno troppi soldi.

La famiglia si è insediata nella capitale al numero 2 di via Nomentana nuova, nel quartiere Monte Sacro. I genitori originari entrambi di Cutro sono portieri dello stabile nel quale la famiglia di Anna e del fratello Salvatore Antonio, ma da tutti soprannominato e conosciuto come Rino, vive. La casa dove risiedono è posta sotto al livello della strada. E il cielo, visto dal basso, a volte può sembrare plumbeo, altre anche blu, si proprio così, a volte può sembrare perfino blu.

Salvatore, anzi Rino, a parte per la sorella Anna, viene dirottato una seconda volta. Lascia infatti la casa dei genitori, direzione Terni, per frequentare il collegio seminariale. Non per un futuro in ambito clericale, ma per poter studiare e conseguire sia la licenza media che quella superiore per poi dedicarsi al lavoro, giacchè la famiglia Gaetano ha decisamente bisogno di uno stipendio in più.

Una famiglia che ammazzata da giornate di duro lavoro non può di certo accudire le scorribande di un monello che intravede nel quartiere dove abita occasioni per mettersi regolarmente in pericolo. Terni, per la precisione Narni, dev’essere e quindi Narni sia. Fra i boschi che circondano il collegio Rino cresce solitario ma amichevole, appassionato di quel che lo circonda.

Ovvero una natura ancora incontaminata e non addomesticata come poteva essere quella della periferia Romana dei primi anni ’60. Il Rino adolescente è un fiume in piena. Prende appunti su tutto quel che lo circonda e per lui la scuola non rappresenta solamente una fonte di apprendimento. Oltre alle prime normali interazioni con i suoi coetanei, ma anche un modo nuovo per iniziare a scoprire il mondo.

Un mondo immerso nel verde e che per questo, con ogni probabilità, lo riporta indietro ai suoi primi dieci anni di vita quando assieme alla famiglia viveva a Crotone e non era ancora stato “abbandonato” in quel di Narni. Come detto Rino passa molto tempo a riflettere, riempiendo miriadi di quaderni con pensieri e disegni vergati con fare incerto e con uno stile che solamente un adolescente, o un inesperto di disegno, possiedono.

Nel frattempo arriva prima la licenza media e a seguire quella superiore sotto forma di un diploma in ragioneria. Quello per il quale era partito in missione non ‘per conto di Dio’, come direbbe qualcun altro, ma per conto di una famiglia che ha bisogno del lavoro di ‘sto ragazzo. Che di anni ne ha ormai diciannove e che sarà quindi il caso che smetta di disegnare e inizi a guadagnare da vivere per sé e per chi l’ha mantenuto sino a quel momento.

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Rino torna a Roma e inizia a frequentare il bar vicino casa dove fa la conoscenza con un’umanità variegata. Che ha le sembianze di un amico fraterno come Bruno Franceschelli e di avventori che tirano tardi la sera. Figli di un’epoca che è uscita dalla guerra da abbastanza per ricordarsene ma che sanno guardare al futuro con uno sguardo pieno di speranza.

Frattanto inizia a interessarsi di teatro, un’arte che gli tornerà utile e con la quale affina le sue doti istrioniche e d’improvvisatore nato. Per Rino, che quando parla sembra un fiume in piena, l’incontro con Marcello Casco, noto anche come autore TV e per le collaborazioni in radio assieme a Arbore e Boncompagni, diviene una tappa cruciale.

Rino si avvicina all’Esquilino, il tetro gestito da Casco, grazie a un altro amico che a breve due o tre cosette musicalmente saprà dirle, stiamo parlando di Antonello Venditti, prendendo parte alle rappresentazioni che spaziano dal teatro dell’assurdo di Samuel Beckett, sino alle rappresentazioni di vita quotidiana di Majakovskij.

Muoversi sulle assi del palco in discorsi pieni di non-sense, come quelli dell’autore irlandese, diventano per Rino la luce in fondo al suo tunnel e ogni volta che raggiunta la fama Casco lo inviterà a qualche rappresentazione Rino sarà sempre presente. Oltre al teatro inizia a frequentare anche un noto locale che si trova nel cuore di Trastevere e più precisamente in Via Garibaldi dove imperversa dall’inizio dei ’60 una fervente attività di canzone politica.

Quando arriva al Folkstudio, questo il nome del locale, è facile che lo effigino con la nomea di ‘cazzaro’, come senza troppi giri di parole ricorda il giornalista musicale Ernesto Bassignano. La colpa della quale si macchia Rino è l’essere sempre gioviale, mai completamente serio e essere figlio di una famiglia proletaria. Non avere il desiderio di cantare le lodi degli oppressi. Non importa, il ragazzo – come diceva qualcun altro – si farà anche se le spalle di Rino sono decisamente strette come quelle della ‘Leva calcistica della classe ’68’.

“Facciamo così, un anno uno solo e poi, se non ce la dovessi fare, vado in banca”

Non crediamo che queste siano le parole esatte ma presumibilmente potrebbero essere queste. Quelle frasi con le quali Rino a inizio dei ’70, cercò di persuadere la famiglia a non insistere per mandarlo troppo velocemente a sgobbare in banca. Concedendogli un altro anno per cercare di coronare un sogno che pareva non riuscire a concretizzarsi.

Poi ecco sotto forma di quel passaggio in auto, datogli da un altro cantante di ‘discreto’ successo nazionale, che si concretizza l’idea di presentarsi alla corte di Vincenzo Micocci. Proprietario della casa discografica IT con la quale il giovane Gaetano riesce finalmente a coronare un sogno. Ovvero il tentativo, perché ancora si parla di semplice tentativo, di incidere un 45 giri contenente due tracce: Jacqueline e La ballata di Renzo.

Il primo è un pezzo in perfetto stile jazz, che mutua lo stile di Buscaglione del quale Rino è un grande appassionato. Un pezzo ritmato e dotato di con un tappeto musicale di tastiere e non-sense, sempre loro le immancabili parole unite in una sorta di rima baciata priva di senso … o quasi. La ballata è invece la storia di un ragazzo rifiutato dagli ospedali dopo che era rimasto vittima di un incidente stradale, ma ne parleremo più avanti.

Nel 1974 Rino porta alla luce un primo album d’esordio che non riesce a catturare l’attenzione del pubblico. Troppo legato a facili strofe e non ancora pronto a tutto quel non – sense, in seguito si dirà che “era troppo avanti per quei tempi”. Pezzi come “Ad esempio a me piace il sud”, in ricordo delle sue origini, o “Supponiamo un amore” vengono tenuti in considerazione solamente dagli addetti ai lavori. Mentre lo spettro di un lavoro da impiegato rimane sempre lì pronto ad attenderlo.

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Il destino però riserva a Rino una nuova opportunità. Dopo vari anni trascorsi a firmare pezzi per colleghi come Nicola di Bari, nel 1975 riesce a firmare il suo primo successo, “Ma il cielo è sempre più blu”. Tormentone da oltre centomila copie vendute sotto forma di 45 giri, diventa il suo biglietto da visita nel mondo della musica di casa nostra.

Mentre nell’anno successivo sarà il secondo album Mio Fratello è Figlio Unico a segnare il suo ingresso dalla porta principale del mondo della musica leggera. Con vendite da super star, alternando testi pieni del solito non – sense con temi come l’emarginazione e la solitudine riuscendo quindi a catturare l’attenzione attraverso due chiavi di lettura, una più immediata e una più profonda.

Gli album seguenti, uno per ogni anno, toccano via via argomenti differenti, dalla migrazione, al mondo dell’economia sempre sotto l’egida di un non sense cavalcato esattamente come a inizio carriera ma al quale, grazie vendite sempre migliori, s’aggiunge un lavoro certosino in termini musicali. Si passa infatti da ballate, al rock progressive, al Reggae, fino all’essere affiancato da musicisti di primo piano.

Nel 1978 Rino viene ormai osannato dal pubblico e conteso dalle tv nazionali. Al punto che una sua partecipazione al Festival di Sanremo non pare più così peregrina. Su pressione della RCA, la sua nuova casa discografica, Rino si fa convincere a partecipare alla kermesse non lesinando due performance che lasceranno il segno.

Prima accompagnato dal gruppo teatrale – musicale dei Pandemonium, in ricordo dei tempi del teatro, bardato con un frac, l’ukulele e l’ormai inseparabile cilindro. Poi, quando Gianna chiude al terzo posto e al termine della serata finale sarà richiamato sul palco per esibirsi nuovamente, il pubblico lo accoglierà sorridendo. Quando lo vedrà arrivare in canottiera e asciugamano dietro al collo, come se fosse stato chiamato improvvisamente mentre si stava lavando in bagno.

Il successo di Gianna, unito alle polemiche seguenti all’uscita di “Nuntereggae Più”, porta Rino al punto di svolta. Da quel momento successo e voglia di reinventarsi lo porteranno a partecipare a manifestazioni estive come Festivalbar e un Discoestate. Cercando al tempo stesso di percorrere nuove strade musicali come preannunciate dall’LP E io ci sto, uscito nel 1980 e dalle sonorità più rock.

Facilmente intravedibili fin dalla title track e nel complesso meno legate alle contaminazioni della musica popolare della nostra tradizione. A una storia come questa manca però il lieto fine. Quando il matrimonio con la fidanzata storica lo sta per accogliere e il successo pare sempre più cementato, il destino gli gira le spalle.

La sera del 2 giugno del 1981 mentre Rino sta rientrando a casa dopo una serata trascorsa con qualche amico, vede calare il sipario su uno dei più incredibili protagonisti dei palchi di casa nostra. Il sipario non cala però definitivamente perché il ricordo è ancora oggi molto vivo. Questo grazie a testi di una grande profondità e attualità e grazie a temi musicali diventati ormai parte della nostra tradizione.

Ah sì, ci stavamo dimenticando. La scomparsa di Rino è stata segnata da un camion che lo travolse dopo che la sua auto aveva invaso la carreggiata opposta. A nulla valsero i soccorsi immediati perché nessun ospedale riuscì a offrirgli aiuto a causa di carenza di posti, esattamente come nella Ballata di Renzo

L’auto prosegue lungo i viali. Siamo oramai a porta San Vitale. Il mio amico del tutto incurante delle mie parole fischietta Spendi spandi effendi, alza a palla l’autoradio della Seat di famiglia e a nulla valgono i fumi che escono dalle mie orecchie. Va beh, accidenti a me e al giorno che gli ho dato un passaggio e gli ho parlato di Rino.

A cura di Ciro Andreotti

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