Non solo Leone e Tornatore: 10 Brani di Ennio Morricone da riscoprire

In occasione dell'uscita di Ennio, film dedicato a Morricone, al cinema dal 17 febbraio, vi portiamo alla scoperta dei grandi capolavori meno conosciuti del maestro!

Morricone
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Per qualcuno colonna sonora di una vita intera, per qualcun altro ispirazione così forte da rappresentare una vocazione all’arte impossibile da ignorare. Per pochi un temibile scacchista, per tutti il maestro Ennio Morricone.

La sua vita votata completamente all’infaticabile ricerca di quel suono che è eterna vibrazione dell’universo resta una delle più grandi eredità della nostra storia. Il film di Giuseppe Tornatore, Ennio, rappresenta il commosso commiato dell’amico e collega, che ha raccolto tutta la sua legacy per rendere ancora più immortale il genio incommensurabile di Morricone

Ennio esce al cinema il 17 febbraio grazie a Lucky Red e racconta la vita e l’opera del maestro attraverso una meravigliosa intervista, oltre che a testimonianze di grandissimi artisti il cui percorso è indissolubilmente legato a quello del maestro.

Da Tarantino a Clint Eastwood, da Oliver Stone a Barry Levinson, Morricone viene raccontato attraverso la sua opera che ha influenzato indelebilmente la musica e il cinema degli ultimi decenni.

Un genio che non è assolutamente riducibile ad alcuna etichetta o paradigma, la cui attività ha scandagliato la musica senza alcun limite imposto dall’industria o dal mondo accademico. Per questo l’opera di Morricone merita di essere continuamente riscoperta, per cogliere le sfumature di un’indagine in cui si è spinto sempre oltre l’ultimo risultato raggiunto.

Per questo è indispensabile raccontare Morricone, riscoprendo anche quelle perle che spesso vengono dimenticate. Il suo nome è innegabilmente associato ad alcuni registi in particolare, ma nella sua sterminata produzione esistono dei veri e propri gioielli segreti. Nell’attesa di Ennio, quindi, riascoltiamo alcune musiche del Maestro, per abbracciare la visione del mondo che ha plasmato con il suono.

Il barattolo, Gianni Meccia (1963)

Il primo consiglio non è un film, e chi conosce Morricone sa benissimo che la musica per il cinema non è che una delle molte forme in cui si è espressa la visione del Maestro. La canzone d’autore ci permette di tornare direttamente alle radici più autentiche della sua formazione, fatta non solo di accademismo. Morricone nasce come compositore nella classe di Goffredo Petrassi al Conservatorio ”Santa Cecilia” di Roma, ma l’ansia per la stabilità economica spingeva spesso a preferire l’utile, rispetto al bello e all’esatto. La stessa ansia che lo spingeva, da giovane, ad imbracciare la tromba per allietare le compagini tedesche per raccogliere misere ricchezze.

Così i primi lavori di Morricone non erano certe complesse pagine sinfoniche o arditi serialismi, ma arrangiamenti per l’industria radiofonica. Un mestiere considerato certo più umile rispetto all’importanza del compositore istituzionale, ma che per Morricone aveva assolutamente la stessa dignità: in fondo, sempre di suoni si trattava. E in effetti lui non mancò di sperimentare sui linguaggi persino nella canzone popolare, lavorando come un abile e paziente artigiano scoprendo la tavolozza dei timbri degli strumenti. Per Morricone la canzone rappresentò un discrimine fondamentale nella sua formazione, dandogli la possibilità di avviare a tutti gli effetti quell’indagine sul suono che è la direttrice di tutta la sua carriera.

È già possibile postulare quella che Sergio Miceli, tra i più autorevoli studiosi dell’opera di Morricone, chiamava ”doppia estetica”, un approccio che fosse al contempo colto e popolare alla materia sonora, in cui si miscelassero fini e intenti senza porre reali barriere. Il barattolo di Gianni Meccia è esemplare rispetto a tutto ciò, contenendo all’interno della sua partitura un magnifico esempio di musica concreta. Linguaggi e contesti sono completamente interscambiabili, e la musica non è definita dalla sua destinazione.

Un tranquillo posto di campagna, Elio Petri (1968)

L’altra faccia della doppia estetica, l’estremo più istituzionale di Morricone, giovane compositore del Novecento, non può che essere Darmstadt. I ferienkurse di Darmstadt erano il tempio della musica contemporanea, dove ogni estate i grandi maestri spiegavano alle nuove generazioni i segreti di quella musica ormai fattasi imperscrutabile elucubrazione del raziocinio. Messiaen, Stockhausen, Nono e Maderna spiegavano i dettami della nuova musica, di quell’iper-strutturalismo che mirava ad avere il controllo su ogni parametro dell’evoluzione del suono.

L’apocalisse musicale era dietro l’angolo: la musica era diventata talmente strutturata secondo regole anti-musicali da risultare in un illeggibile caos sonoro. E il giorno del giudizio è proprio l’estate del 1958, quando John Cage porta la musica aleatoria a Darmstadt: se il risultato all’orecchio è completamente casuale, tanto vale che anche i presupposti siano lasciati ai dadi.

Proprio il caso ha voluto che quell’estate Morricone fosse a Darmstadt. L’incontro con quel rivoluzionario che fu John Cage fu una svolta determinante nella definizione dell’estetica morriconiana. Tutti i post-weberniani furono squalificati con un solo gesto, e un compositore fresco delle sue esperienze più d’avanguardia (3 studi, Musica per 11 violini, Distanze) si trova costretto a misurarsi con nuove e più difficili sfide.

Morricone e il gruppo Nuova Consonanza

Senza dubbio il gruppo Nuova Consonanza nacque sulle ceneri del tempio della musica occidentale incendiato da John Cage. Quella tromba tanto amata da Morricone, eterno amore dichiarato in tanti suoi capolavori, viene nuovamente imbracciata per affrontare le nuove questioni della contemporaneità musicale. Alea, estrema sperimentazione timbrica e fascinazioni orientali: tutto questo confluì in Un tranquillo posto di campagna, film che segna l’inizio della collaborazione con Elio Petri.

Ben più sconosciuto della trilogia della nevrosi, questo film è in realtà un piccolo gioiello della storia del nostro cinema, in cui dissonanze visive e sonore si sommano nella ricerca di una sintesi audiovisiva che fosse l’equivalente filmico di un happening dadaista.

Doppia estetica significa non porre alcuna barriera di classe. E così il risultato più estremo della musica assoluta si trovò a contrappuntare le sequenze di un film. All’epoca la composizione per il cinema non godeva ancora di alcuna dignità negli ambienti istituzionali. Ma d’altronde in questo film Morricone versò anche la sua Musica per 11 violini, dimostrando come nella sua poetica la materia sonora fosse un qualcosa di fluido, impossibile da relegare a qualsiasi possibile definizione e categoria.

Uccellacci e uccellini, Pier Paolo Pasolini (1966)

Doppia estetica vuol dire contrapposizione, ma anche e soprattutto sintesi. Pochi altri terreni erano fertili per quest’operazione come il cinema di poesia di Pier Paolo Pasolini, che tanto similmente a Morricone cercava il lirico nel ritorno all’arcaico e popolare. I leggendari titoli di testa di Uccellacci e uccelini, a cui Domenico Modugno prestò la voce, restano ad oggi una geniale intuizione.

Tanto cinema, dalla nouvelle vague agli estremi della più sfrontata sperimentazione, ha cercato soluzioni che fornissero alla sequenza di apertura di un film una più organica continuità con la pellicola.

Morricone e Pasolini adottano questa invenzione, scrivendo la storia del cinema con una trovata che resta irreplicata. E se nel film troviamo il pensiero pasoliniano espresso con rigore e licenza poetica, non di meno possiamo ritrovare i fondamenti di quella ormai celebre doppia estetica. Probabilmente senza quegli anni di bottega Morricone non avrebbe padroneggiato i linguaggi leggeri con tutta la maestria che dimostra. La scrittura della voce è di chiara derivazione cantautoriale, ma l’orchestrazione e il contrappunto sono quelli di un grande Maestro.

Una risata beffarda, la sua, accompagna il nome di Ennio Morricone, un segno di grande autoironia che non appartiene di certo a tutti. E infatti nel bel mezzo di una scrittura sinfonica, sul nome di Danilo Donati si è concesso una flessione sui suoni della big band. I linguaggi si compenetrano, senza soluzioni di continuità, e Scuola di Ballo al Sole è uno dei momenti più belli del cinema italiano anche per le sferzate rock che portano la firma di Morricone.