A Week Away, Recensione del Musical targato Netflix

A week away è il nuovo musical di casa Netflix, destinato ad un pubblico di giovanissimi sulla scia di molti successi Disney degli anni passati.

A week away, Roman White, Musical
Avery e Will danzano in una scena di A Week Away. Credits: Netflix
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A Week Away è disponibile su Netflix dal 26 marzo. Il musical è il secondo lungometraggio di Roman White, che ha all’attivo un’ampia carriera da videomaker avendo realizzato più di 100 videoclip. Tra questi spicca la lunga collaborazione con Carrie Underwood e fra gli altri, Taylow Swift e Justin Bieber.

White aveva esordito sul lungometraggio con un altro musical, Summer Forever, nel 2015. Torna quindi sul suo genere d’elezione con questa produzione originale Netflix dedicata ad un pubblico di giovanissimi.

A Week Away, la trama

Il furto di un’automobile della polizia è la goccia che fa traboccare il vaso: per il giovane Will (Kevin Quinn) non rimane che il riformatorio come ultima possibilità di redenzione. Una vita difficile che gli pone un’occasione: partecipare ad un campeggio estivo.

Una volta giunto al camping scoprirà di essere finito in un ritiro di ragazzi cristiani. Sarà quindi costretto a glissare continuamente sulla sua storia personale, per conquistare il cuore della bella Avery (Bailee Madison), ragazza perfetta dalla fede convinta.

In realtà, però, davanti a Will si prospetta ben più di un semplice amore estivo.

A Week Away, il cast

  • Bailee Madison: Avery
  • Kevin Quinn: Will
  • David Koechner: David
  • Sherri Shepherd: Kristin

Trailer

A Week Away, la recensione

Le prime scene di A Week Away ci costringono a porci una domanda. In qualche modo è davvero il quesito fondamentale ogni volta che in un musical c’è quella transizione così caratteristica tra la scena e il quadro musicale.

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Che sia un etereo Fred Astaire a prendere a danzare davanti ai nostri occhi o che siano i Jet che piroettano schioccando le dita, tramando la prossima bravata contro gli Sharks, è impossibile rimanere indifferenti. Per quale motivo, dal nulla, i personaggi iniziano a ballare e cantare?

Nemmeno il protagonista doveva essere a conoscenza della risposta, quando incredulo scopre di essere finito in un campeggio cristiano. Ecco perché tutti, da un momento all’altro, intonano canti con improbabili derive christian rock.

Dev’essere stato un duro colpo per Will, bello e dannato con una storia difficile alle spalle, finire in un contesto così diverso da lui. Pur di evitare il riformatorio avrebbe accettato qualsiasi cosa, tranne una settimana di camping dell’Azione Cattolica.

Eppure decide di adattarsi, prendendo parte con scioltezza a quelle coreografie spesso goffe e posticce, e da qui prende il via la più classica delle narrazioni del coming of age.

La scoperta del proprio io, del posto a cui si appartiene, troverebbe in effetti un perfetto contrappunto nella fede, tema così delicato e complesso che però rimane come uno sfondo della caratterizzazione, per di più tutt’altro che brillante.

A week away sembra un brutto reboot di altri film

A week away
Avery e Will in una scena di A Week Away. Credits: Netflix

Il più classico degli schemi: lui e lei, l’altro che cerca a tutti i costi di sabotare la loro storia impossibile. Lei è la figlia dell’organizzatore dell’Aweegaway, lui è praticamente un figlio della strada, ma ovviamente si innamoreranno in questa magica settimana in cui può succedere qualunque cosa.

L’altro è l’imbattuto capitano della squadra che ogni anno vince i War Games e il talent musicale che segna la conclusione del camping.

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A week away sembra così un ennesimo more of the same di tanto cinema destinato ad un giovane pubblico. Netflix ha dimostrato grande interesse per la fascia degli young adult e questo A week Away si colloca nella scia di una produzione dedicata ad un pubblico giovanile.

I numeri musicali sono così poco incisivi da risultare totalmente dimenticabili, per quanto ben congegnati da un punto di vista registico, facendo perdere però valore a questa iterazione del genere.

La tentazione è davvero quella di mandare avanti ogni volta che sentiamo uno strumentale partire in sottofondo: i quadri musicali sono troppi, e purtroppo non del tutto riusciti.

La religione rimane, come abbiamo accennato, davvero un motivo poco sviluppato, mentre sarebbe potuto essere uno switch molto interessante nella costruzione della vicenda.

Rimane una sorta di invenzione narrativa, una cornice che dona davvero poco alla vicenda, se non una rappresentazione piuttosto stereotipa dei giovani cristiani.

Tra tutti i possibili luoghi comuni di un film di questo tipo si salvano le interpretazioni dei due giovani protagonisti, ma solo perché lui ricorda, in certe espressioni, il giovane Zac Efron di certi Disney Channel Original Movie: nel genere, la grande D rimane davvero il riferimento assoluto.

L’impressione che rimane a fine visione è, insomma, quella di aver visto un brutto reboot di Camp Rock, poco incisivo e facilmente dimenticabile.

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