Carmelo Bene, ovvero prendere il Cinema a schiaffi

Il cinema di Carmelo Bene è contemporaneamente un riassunto ideale di tanti tratti della sua estetica e un grande schiaffo alla settima arte.

Carmelo Bene
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Parlare di Carmelo Bene è come ballare di architettura, parafrasando (quasi) Frank Zappa. Carmelo Bene va letto, ascoltato, vissuto, sperimentato: non ci sono altre vie possibili all’incontro con uno dei più grandi geni della storia del teatro. La sua revisione totalizzante dell’esperienza artistica assume in sé la potenza di una rivoluzione nietzschiana, fatta di distruzione e rinascita sotto nuovi e più veri impulsi.

Non vorremo quindi permetterci di tentare un riassunto dell’opera di Carmelo Bene. Ci limiteremo a fornire invece una guida di un Carmelo Bene paradossale e parossistico, che è rimasto ai posteri come una potentissima contraddizione.

Il suo contributo alla Settima Arte è prezioso in quanto capace, spesso, di riassumere alcuni tratti della sua estetica, violandone allo stesso tempo molti altri. Solo una figura come la sua poteva essere il polo unificatore di questi assurdi: il loro equilibrio impossibile rappresenta un perfetto primo incontro con un gigante come Bene.

L’esordio da attore per il cinema con Pier Paolo Pasolini

“Io non desidero affatto essere sovrano, mi basta vivere da sovrano, come chiunque ha un minimo di saggezza”

Cercare un ritratto possibile e trovarle nelle poche parole di una comparsa. Nel 1967 Carmelo Bene apriva la cosiddetta parentesi cinematografica con Pier Paolo Pasolini e il suo Edipo Re. Una convergenza storica, per la quale si trovarono a lavorare insieme due degli intellettuali più complessi del secondo Novecento, peraltro nel genere eletto della tragedia.

Essendo l’eccesso il fondamento della filosofia di Carmelo Bene, quale tramite per superare il linguaggio e il significato, sicuramente doveva avere più di un’affinità elettiva col regista e Corsaro, che infatti era assiduo frequentatore del Teatro Laboratorio di Trastevere.

Quando però nel 1995 Bene si sarebbe scagliato contro il cinema, definendolo la “pattumiera di tutte le arti”, non ha risparmiato nemmeno Pasolini. Eppure proprio lui riuscì a superare i limiti del linguaggio con Salò, svelando però così la sua natura di violento. Le parole di Carmelo Bene sono caustiche, spesso contraddittorie, e le sue stesse interviste assomigliano davvero al suo teatro, distruttivo e scandaloso.

Nelle accuse del suo Creonte ad Edipo cortocircuitano così le parole che rivolge a Pasolini. E la violenza sulla sua arte parrebbe quella di essere stato doppiato. Le fondamenta della sua macchina attoriale sono nella phoné, nell’espressione sonora amplificata. Ciò permette la continua proiezione della voce dall’interno verso l’esterno, e viceversa. È evidente quindi che il debutto pasoliniano fosse un passaggio necessario, ma non sufficiente.

Nostra Signora dei Turchi e Capricci: il piacere di scandalizzare

La prova da regista cinematografico di Carmelo Bene è decisamente più significativa. Con cinque film, realizzati tra il 1968 e il 1973, Bene sferrò i suoi colpi al cinema, prendendo letteralmente a schiaffi pubblico e critica. Nostra Signora dei Turchi è la prosecuzione naturale della sua acida iconoclastia, che si trasforma in distruzione nell’immagine e dell’immagine. Mentre il visivo viene deformato e corrotto, inseguendo l’idea di eccesso, è la pellicola stessa ad essere corrosa, sistematicamente deturpata.

Il tentativo esplicito era quello di superare non solo significati e significanti, ma di andare oltre il mezzo stesso, risultando in realtà in un’operazione di cinema sperimentale di alto livello. Carmelo Bene è così oltre le avanguardie da chiudere il cerchio e tornare al dadaismo e al surrealismo nelle loro forme più estreme.

La destrutturazione si traduce in distruzione, attraverso il grottesco che diventa degenere, e su tutto quel monologo continuo che diventa una sorta di melodia infinita in senso wagneriano, ad orchestrare la sinfonia di immagini. O, se vogliamo, un flusso di coscienza alla maniera dell’amatissimo James Joyce.

L’esperimento viene ripetuto con Capricci l’anno seguente. L’idea alla base è la stessa, dissacrare il linguaggio, partendo dal Manon Lescaut e da un dramma anonimo elisabettiano per stravolgere tutto attraverso il punto di vista di Carmelo Bene. Saranno queste le ragioni del grande fascino esercitato su quei cinéphiles francesi che lo trattarono come un profeta, mentre alcuni dei suoi sostenitori in Italia iniziavano a nutrire qualche perplessità.

Carmelo Bene

Don Giovanni, Salomé: il Grande Teatro nel cinema

Così come con Edipo Re, con le opere successive Bene torna ad adattamenti di opere teatrali, riconducendo esplicitamente il Grande Teatro nel suo cinema. Don Giovanni (1970) è il soggetto ideale per indagare quel sottile confine tra il tragico e il comico nella filosofia di Carmelo Bene, sottile quanto lo è la linea che ci divide dalla morte.

È un altro cortocircuito che non può non tirare in ballo Mozart, interprete di questi respiri mortiferi sul vitalismo del donnaiolo. Nelle sue arie da dramma giocoso non spariscono i tremendi accordi dell’ouverture, che piuttosto si trasformano in un vero e proprio presagio di morte per il dissoluto punito.

Il diario del seduttore di Carmelo Bene fa propria la visione mozartiana non solo nella citazione musicale, ma comprendendo nel profondo l’eterna attualità dell’opera. Tutto viene però piegato dalle logiche perverse del teatro beniano. I tempi dell’azione sono sempre sincopati, distruggendo ogni possibilità di dare un valore drammaturgico a quella stessa citazione musicale e continuando a trasformare la grammatica del montaggio in sghembe successioni di visioni che sospendono continuamente la drammatizzazione.

Don Giovanni torna riconoscibile solo nel finale, quando realizza il suo intento iniziale facendosi portavoce dell’eccesso dei desideri, che con Carmelo Bene equivale alla ri-definizione del porno e dell’osceno.

Un altro portavoce ideale è quindi il diavolo che Bene porta in scena nell’immaginifico Necropolis di Franco Brocani, dello stesso anno. Un diavolo affascinante e ammaliatore, davvero seduttore, che finirà per tacciare di moralismo la sua preda, unico peccato realmente imperdonabile nella filosofia di Bene.

L’eccesso e lo scandalo si sarebbe compiuto però davvero solo con Salomé (1972), che raccorda definitivamente il teatro e il cinema di Bene. Il film altro non è infatti che la versione cinematografica della sua metamorfosi teatrale da Wilde, in cui Gesù Cristo si trasforma in un vampiro.

Un Amleto di meno: Carmelo Bene esce di scena

Giungendo al limite ciò che Bene lasciava avvertire era il maturare di quelle consapevolezze sull’arte filmica, che lo porteranno progressivamente a diventare sempre più critico non tanto sul mezzo-cinema, ma sulla possibilità di piegarlo secondo le proprie logiche.

Così l’ultimo afflato cinematografico di Carmelo Bene poteva essere solo la sua autentica uscita di scena. Un Amleto di meno catalizza la sospensione del tragico, il suo reale superamento, portando su grande schermo la fine del teatro attraverso un non-Amleto impersonato da un non-attore. Se per Stanislavskij Il lavoro dell’attore su se stesso e Il lavoro dell’attore sul personaggio erano la dialettica alla base della psicotecnica, dell’immedesimazione, per Carmelo Bene lo stesso conflitto di forze si risolve nell’annichilimento.

Superando persino lo straniamento brechtiano, Bene rinasce come non-attore dalle ceneri della distruzione del teatro. Il Grande Teatro che viene riconfigurato dalla sua estetica recitativa è quindi un non-spettacolo di assenze, e qui sta il suo più grande paradosso.

Non esiste un Grande Cinema che sia specchio limpido di quel Grande Teatro perché la pellicola, per quanto distrutta e deteriorata, è una presenza. Con il grande schermo Bene si è consegnato ad un’immortalità da classico che è la più grande negazione di quelle assenze che abitano il suo teatro, e a cui lui continuamente si sostituisce.

Forse Bene deve aver riconosciuto questa violenza che ha compiuto su se stesso, quando nel 1995 tornò a parlare del cinema come pattumiera. Forse parlava la colpevole consapevolezza: il cinema ha contribuito a trasformarlo in quel sovrano tremendo e maestoso, al quale il suo Creonte non ambiva di certo.

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