Dumbland: riscoprire la prima e ultima serie animata di David Lynch

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E’ facile dimenticarsi di Dumbland.

In una retrospettiva dedicata a David Lynch (quante ve ne saranno ogni giorno in giro per il mondo?), difficilmente la mezzora scarsa di materiale targato 2002 conquisterebbe un posto nel programma. Lo stesso Lynch, sempre estremamente legato al proprio lavoro, non ha mai più riproposto il volto di Randy in quanto visto dopo.

Dumbland è un’opera minore, lo si può dire.

Ma esiste “un’opera minore” parlando di David Lynch? Esiste un solo tassello che non sia perfettamente centrato all’interno di un percorso inattaccabile, perfettamente (il-)logico ed in continua evoluzione come quello dell’autore di Missoula? Gli otto cortometraggi animati di Dumbland restano un unicum nella sua intera filmografia. Basterebbe questo. Ma c’è di più.

Il distacco dal Cinema: davidlynch.com e Dumbland

A ripensarci oggi viene quasi da ridere, ma nel 2001 David Lynch non se la passava bene. Il regista più idolatrato e discusso dei precedenti vent’anni perdeva colpi. Passato attraverso una fase di stardom travolgente tra gli anni ’80 e ’90, il vecchio ragazzo del Montana da qualche anno stava perdendo il suo pubblico. Nel periodo di Velluto Blu, Cuore Selvaggio e soprattutto Twin Peaks, Lynch era stato un regista di massa: non solo eroe avant-garde della cinefilia sperimentale, ma autentico fenomeno pop da grande pubblico (un po’ come pochi anni dopo sarebbe diventato il giovane Quentin Tarantino). Gli anni novanta era la decade del “cult”, etichetta senza alcun significato che pure non si negava a nessuno.

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Agli inizi del 2000, Lynch aveva messo in fila un poker di flop impressionanti, per un nome che dieci anni prima pareva sul punto di cambiare il Cinema da solo.

La critica si divideva in chi ne intravedeva ancora la linearità del percorso, e chi (la maggior parte) lo aveva bollato come ufficialmente impazzito già da Fuoco Cammina Con Me. Il pubblico non gli aveva in fondo mai perdonato il brusco ritorno al surrealismo, dopo un decade passata a giocare tra film in costume su commissione e una più accessibile estetica neo-noir. Elephant Man era visto come un’eccezione: Lost Highway, il volto della piena libertà artistica di un ex-talento sprofondato nell’autocompiacimento sornione. Ormai mancavano i soldi per continuare. Mulholland Drive era stato concluso per pura botta di fortuna: figlio di un pilota abortito per una serie tv ABC, era stato finanziato in corsa dalla francese Canal+ e portato a lungometraggio autoconclusivo al termine di una produzione infinita. C’era disamoramento.

A Lynch il cinema interessava sempre meno. Troppa fatica, troppe restrizioni. Nato come artista poliedrico, cominciò a riscoprire l’arte più casalinga e indipendente.

Il web venne incontro. Il mitologico davidlynch.com, lanciato nel 2002 e oggi chiuso, fu per un periodo un piccolo punto di riferimento: disegnato personalmente da Lynch, era la chiave espressiva scelta dal regista per presentare al mondo i suoi lavori. Via tutto il carrozzone dell’industria, rimaneva solo l’uomo e la sua arte. Brevi video non-sense, interessantissimi report del tempo (ancora in giro su youtube) e ovviamente due serie di cortometraggi. Rabbits è un piccolo classico, ma Dumbland merita di essere raccontato.

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Dumbland come anti-cartoon

Le caratteristiche di Dumbland sono respingenti. E’ un ritorno al Dadaismo più esasperato degli esordi, i fantastici corti animati Six Figures Getting Sick e The Alphabet: bozze mai più sviluppate di un Lynch animatore, palesemente devoto all’anti-arte assurdista di Tzara, non ancora influenzato dal trascendentalismo che ne avrebbe caratterizzato la produzione successiva. Un computer, un programma Flash basico, disegni tracciati attraverso linee del mouse, voci registrate in casa e distorte, sessanta ore di lavoro monastico e ossessivo per ognuno dei tre minuti.

Dieci ore solo per permettere al mio omino seduto di alzarsi in piedi!” scriverà divertito Lynch: la disarmante autonomia di mezzi e mancanza di capacità tecniche sono l’elemento fondante del lavoro.

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Dumbland è l’anti-cartoon. Se da Disney in avanti l’animazione è sempre stata intesa come mezzo per spingere le immagini dove la realtà di un set non avrebbe permesso, Lynch si muove in direzione opposta.

Utilizza il cartone animato contro sé stesso, sabotandone le caratteristiche definenti. Niente immaginazione, niente fluidità, niente colore, niente di niente. Solo lo scarabocchio di un tizio (“Randy”, spiegava il sito), intento su sfondo semi inesistente a svolgere una parodia delle più basiche attività umane (guardare la tv, defecare, picchiare la moglie o il vicino, imprecare, restare immobile). In questo, la cosa più vicina a livello stilistico sono forse i primi lavori di Mike Judge (Beavis & Butthead ovviamente in primis), giocati proprio su un disegno da striscia punk e sulla stigmatizzazione dell’idiozia dei suoi semi-analfabeti personaggi.

Lynch sposta naturalmente il discorso verso la surrealtà Dada, ed esplode il concetto di crudezza a livelli quasi destabilizzanti. Dumbland non offre altro. Eppure, il senso è addirittura evidente.

La parodia e la satira nell’universo Lynch

Parlando di Dumbland ai tempi della messa online, Lynch la descrisse come “una serie molto volgare, stupida, violenta e assurda; e anche molto divertente, in quanto ne riconosciamo l’assurdità“. Raramente l’autore è stato così esplicito nello spiegare la propria interpretazione di un suo lavoro.

Dumbland è assurdo e schifoso perché irride una realtà assurda e schifosa, quale è, perfettamente in linea con l’opera del regista, quella della piccola borghesia occidentale del benessere. Randy è, neanche tanto velatamente, la pantomima del pater familias americano medio: un classico Homer Simpson o appunto Randy Marsh (un caso?), stravolti dalla furia immaginifica lynciana. Ha una moglie deforme che non fa altro che urlare in preda ad una sorta di orrore cosmico (Leland e Sarah Palmer sono lì), un figlio piccolo demente e inquietante, una casa e un giardino separato dal mondo da una staccionata.

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Nei trenta minuti e otto episodi che non avrebbe senso riassumere, schizzi frammentari di vita quotidiana prendono forma come incubi splatter di pura demenza e follia.

La violenza totale di Randy e della sua vita è il centro della “terra degli idioti”: dove niente ha senso, e gli uomini sono burattini animaleschi che si uccidono, si mutilano, svuotano l’intestino e bestemmiano come unico motore del proprio stesso essere.

Lynch è, da un punto di vista etico, molto americano: crede nel bene e nel male, nell’amore e nella bontà, da contrapporsi alla cattiveria e all’egoismo.

In questo, è molto lontano dal Nichilismo europeo da cui pure in teoria prende le mosse. Dumbland rivela (come se ce ne fosse il bisogno!) la visione che Lynch ha di quella America gretta, ignorante e disumana degli alienanti sobborghi white trash. Lontani dal misticismo e dal mistero, gli uomini di Dumbland sono dei poveri mostri chiusi nel nulla di gabbie bianche. Da compatire, e di cui ridere.

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Da Dumbland a Twin Peaks 2017

La satira di grana grossa non è il terreno di David Lynch. Dumbland è molto divertente (se ne si comprende il gioco, cosa non difficile), ma non è difficile né complesso. E’ anzi addirittura semplice, accessibile, e tradisce la propria natura di divertissment. Il progetto è finito ed esaurito in sé stesso, e ciò spiega l’oblio a cui lo stesso regista lo ha relegato. Allo stesso modo, è un passo fondamentale nell’aprire le porte all’ultima fase della carriera di David Lynch, e costruirne il personaggio che un anno fa, di fronte a Twin Peaks 3, il mondo ha salutato da autentico guru.

Con Dumbland, Lynch dà un primo segnale di addio al Cinema (che arriverà formalmente solo nel 2006 con lo sperimentale Inland Empire) e riscopre il mondo dell’avanguardia autarchica a cui, in altre forme, dedicherà gli anni seguenti. Da lì in avanti, sarà il mito del regista a parlare. Dopo Dumbland, sarà il Lynch della pittura, la musica, la videoarte e la divulgazione nel campo della meditazione trascendentale.

Non più il Lynch dei flop (nel frattempo rivalutati in blocco), ma l’ultimo grande genio dell’arte audiovisiva contemporanea, inafferrabile, alieno da tutto e tutti, vivo solo attraverso le proprie opere e le proprie parole.