Youth: Uno Sguardo Vicino a ciò che Vediamo Lontano.

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Come per La Grande Bellezza, anche dopo la visione di Youth si può provare un lungo torpore.

Le sensazioni e impressioni raccolte diventano difficili da mettere nero su bianco senza involgarirle. Ma proprio come accadde per La Grande Bellezza, un commento su un film di simile portata non può mancare sulle pagine della Scimmia.

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Riassumere Youth è difficile, se così non fosse non si tratterebbe di Sorrentino; se così non fosse, lui stesso non sarebbe ricorso a un simile catalogo umano di paure e ansie in un grande hotel che si affaccia sulla natura infinita. Quello che il regista ancora una volta ci ha donato è una perla di raro valore, conferma di un talento prima di tutto poetico, non ancora del tutto riconosciuto dal cinema italiano contemporaneo.

Il cast internazionale di cui si è avvalso è ben congegnato: Michael Caine, cui forse Sorrentino ha dato il ruolo della sua carriera, Harvey Keitel, il Mister Wolf di Pulp Fiction, una bellissima e fragile Rachel Weisz, un Paul Dano profondo e filosofico come lo era in Little Miss Sunshine e una Jane Fonda breve ma intensissima.

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Youth è un inno lirico alla giovinezza, alle speranze e all’età della ragione matura, alle difficoltà di abbandonare quella lunga e intensa fase che ognuno di noi crede costituisca l’intero quadro dell’esistenza. Così non è e la giovinezza passa, il passato ci carica le spalle, il futuro eccolo qua, e dobbiamo allora affrontare la fine di un’epoca e l’avvento di un’altra.

In una società che osanna la perfezione, la pelle tirata e il seno sodo, Sorrentino si permette di soffermare sublimemente lo sguardo sulle rughe di Caine, di Keital, di Fonda. È il peso della giovinezza che ha lasciato le sue tracce sull’uomo, è il segno che abbiamo camminato, che abbiamo delle storie, è il segno che siamo stati vivi. Quando siamo giovani questo è dato per scontato e quasi dovuto dalla natura, ma con questo film Sorrentino ci ricorda che non è così e che in ogni caso non è un dramma, bensì un ciclo; e la vita, in qualunque forma sia, non ci abbandona mai.

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Uscito dal caos urbano di Roma, in Youth Sorrentino ci porta a riflettere sul tempo che passa in un luogo che sembra quasi avulso da tempo e spazio. La lussuosa clinica svizzera, maestosamente situata nel cuore delle Alpi, diviene allora l’occasione ideale di incontro delle generazioni più diverse, la sfilata dei corpi in decadenza e di quelli al loro apice. Nello spettacolo umano fatto di massaggi che tentano di modellare corpi troppo gravidi di tempo per potersene alleggerire e di personaggi in cerca dell’ispirazione artistica o di se stessi, Fred Ballinger (Michael Caine) e Mick Boyle (Harvey Keital) sono i nostri occhi.

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Amici da tempo immemorabile (letteralmente), il primo è stato uno dei maggiori direttori d’orchestra del mondo, l’altro un altrettanto acclamato regista.

Nel loro diverso modo di affacciarsi a osservare quel che è stato delle loro vite fino ad ora, Fred e Mick rappresentano due poli opposti dell’animo umano. Se Mick è da un lato la tenacia e il desiderio della vita, che non si arrende e vuole lasciare al mondo il suo testamento spirituale per non morire mai davvero, dall’altro Fred rappresenta la malinconia dell’artista che ha dato tutto per un’unica passione, esauritasi nello spirito con il venir meno delle forze del corpo.

E così Mick confessa: “Ho perso i migliori anni della mia vita. Tu hai detto che le emozioni sono sopravvalutate, ma è una vera stronzata, le emozioni sono tutto quello che abbiamo”, mentre Fred ammette di non aver mai amato la vita tanto quanto l’ha amata l’amico.

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Presente in scena anche Maradona, che meglio di tutti rappresenta forse lo strazio di salutare la giovinezza e il vigore, ma che è comunque capace di regalarci un momento sublime nel suo  palleggiare con una pallina da tennis.

In questa storia, che poi tanto storia non è, i momenti più intensi sono in ciò che non viene detto o ciò che non può esser stato visto dallo spettatore che si trova in sala, nascosto come Fred e Mick quando spiano l’anziana coppia silenziosa nei boschi, davanti ad uno spettacolo lineare e circolare allo stesso tempo. Lineare perché pulito, esteticamente e filosoficamente perfetto, circolare perché riconduce sempre allo stesso punto: la vita. E la vita continua sempre, solo con forme diverse, con tutto il carico di ansie e paure che ne deriva.

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Accade tanto a tende chiuse, come quando Jimmy (Paul Dano), un attore di Hollywood incatenato in un ruolo che ormai detesta, incontra in un negozio di orologi a cucù una bambina che lo ha riconosciuto da un suo film che però “non ha visto nessuno” e che con poche parole, gli ricorda il suo desiderio di rappresentare il mistero della vita. Nel film citato dalla bambina Jimmy era un padre che, spaventato dalla paura di essere inadeguato, è scappato, lasciando il figlio a crescere da solo.

Quella scena mi ha colpito per un motivo, perché ho capito che tutti noi non ci sentiamo all’altezza della vita. Ed è proprio per questo che non possiamo averne paura

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Per la colonna sonora poi, David Lang regala una musica divina, onnipresente e onnipotente.

Fa vibrare le corde del cuore quando Caine dirige adagio i suoni della natura su spartiti immaginari. E il main themeCeiling Gazing di Mark Kozelek e Jimmy laValle è semplicemente in grado di far innamorare. Perché la musica è anche la miglior metafora della giovinezza: vibra, è leggera, ma anche potente e non facile da suonare; inizialmente si è goffi, si alza troppo il gomito per suonarla, poi con il tempo ci si affina, tutto diviene più naturale.

Delicato e sincero, per certi aspetti più accessibile al grande pubblico del premio Oscar La Grande Bellezza, Youth resta un’opera di profonda riflessione su ciò che si accende nel cuore quando le luci di abbassano e la musica finisce. Merita di essere visto e discusso dagli italiani, perché il talento di Sorrentino non resti uno sparuto incostante sprazzo di bellezza di cui gode solo il resto del mondo.