Armageddon, la stand-up comedy di Gervais non convince

Ricky Gervais torna in grande stile su Netflix con Armageddon. Tuttavia la sua stand-up non convince troppo

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A cura di Serena Trivelloni

Il primo uomo che ha lanciato al suo avversario un’ingiuria invece che una freccia è stato l’inventore della civiltà” scriveva Sigmund Freud. E’ la prima frase che viene in mente dopo aver visto lo spettacolo “Armageddon” di Ricky Gervais su Netflix. Classe 1961, alla sua terza stand-up comedy (dopo Humanity e Supernature), il comico britannico alza nuovamente il polverone del politicamente corretto, giocando sul suo essere o non essere “woke” nella società di oggi. Per alcuni non è stato il Gervais delle prime due commedie, o il brillante creatore di The Office e Afterlife, per altri semplicemente non si è rivelata una piacevole scoperta.

Perché Armageddon

Per quanto i media internazionali lo definiscano “il più grande nome nel settore della comicità televisiva a livello mondiale”, a un semplice spettatore, lontano dalle logiche della satira black humor, lo spettacolo potrebbe non risultare così geniale. Il nome “Armageddon” riprende l’intramontabile film di Michael Bay, per il quale il mondo sarebbe arrivato al suo ultimo atto, in attesa del giudizio finale. Un mondo privo di umanità, di altruismo, di connessioni emotive, in pasto all’ unica legge ipocrita del politicamente corretto. Fin qui non ci sarebbero osservazioni da fare perché i concetti di Gervais, nella loro spietata sincerità e irriverenza, risultano drammaticamente veri.

Spavento per le parole o irriverenza?

Il problema forse è la modalità linguistica utilizzata per fare arrivare al pubblico quegli stessi concetti, in una carrellata di battute sfacciate o di dubbio gusto che finiscono per risultare sin troppo prevedibili e ripetitive: omosessualità, disabilità, razzismo, violenza sessuale, malattia. Una mitragliata di considerazioni talvolta efficace, talvolta gratuita, per le quali il comico però sembra doversi ogni volta giustificare con il proprio pubblico – che quindi lo conosce – a causa di quello “spavento per le parole” di cui lui stesso rischia di essere vittima.

Religione e mondo social

Due tematiche vengono invece affrontate con maggiore brillantezza, quelle riguardanti Dio e l’inconsistenza del mondo virtuale. Il primo è un tema caro a Gervais, considerato che ateismo e cristianesimo costituiscono il nucleo centrale della sua filosofia:

Con tutti gli dei che ci sono, come fai a sapere che stai pregando quello giusto? Con che criterio deciderà di intervenire? Se è una decisione democratica, se risponde al maggior numero di preghiere, siamo fottuti” – dice al pubblico inglese – “siamo un paese piccolo, i cinesi sono di più, salverà sempre loro e mai noi, da due disgrazie contemporanee.” E poi la riflessione sull’ “era della suscettibilità” per la quale tutti si indignano e nessuno cambia mai nulla.

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Qui parte un suo classico, la lettura dei commenti sotto un determinato profilo social. In questo caso si tratta di “Does the dog die”, il sito su cui è possibile scoprire se esistano in un determinato film scene in grado di urtare la sensibilità dello spettatore. Il film in questione è il celebre “Schindler’s List” di Steven Spielberg, per il quale qualcuno ha chiesto se fosse presente dell’antisemitismo, qualcun altro se venissero maltrattati animali o se fossero presenti battute infelici sui grassi. Come se la catastrofe umanitaria raccontata in Schindler’s List fosse riducibile a questo.

Le parole sono importanti. Il riferimento a “Lenny” del 1974

E se “i pensieri non si scelgono” come sottolineato dall’artista durante lo spettacolo, le parole però sono importanti, per citare Nanni Moretti. Perché delineano il confine tra buono e cattivo gusto, sensibilità e insensibilità, comicità e satira. Nulla di nuovo ci suggerisce Gervais: basti pensare a Bill Hicks, Sarah Silverman o Lenny Bruce, interpretato magistralmente da Dustin Hoffman nel film “Lenny” del 1974.

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Qui il protagonista attraverso un monologo intelligente spiega che è la repressione della parola a dare forza, violenza e malvagità alla medesima. Se non vi fossero tabù e ammonimenti riguardo il suo utilizzo, se non esistessero convenzioni e limiti sociali riguardo la definizione del concetto di “volgarità”, probabilmente quella stessa parola perderebbe di valore e significato. Ma quello era Dustin Hoffman, ed era il 1974.

Cambia la società, cambia il tipo di comicità

A 50 anni di distanza, Gervais si ritrova a dover fare i conti con una realtà storicamente più complessa, fatta di battaglie, cicatrici e di diritti. Anche il volto della comicità è cambiato profondamente, e se da una parte il suo intento è quello di invitare giustamente il pubblico a non aver paura della comicità, e quindi delle parole, dall’altra ogni eccesso rafforza la consapevolezza di una società sempre più sguaiata e abbandonata a sé stessa.

La comicità trova il suo senso più autentico e profondo quando combatte contro la censura, quando ci si vuole spogliare di ogni maschera. Ma se non c’è piú niente da togliere, se si è già nudi, cosa succede? Nessuno può imporre a Gervais dei limiti, o il modo corretto di fare satira, ma la sensazione una volta finito lo spettacolo è quella di aver strizzato l’occhio e sorriso, non riso, ad un’amara realtà di cui siamo tutti sin troppo consapevoli.

Che ne pensate? Avete visto Armageddon? Siete d’accordo con noi?

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