Piccolo Corpo: le resurrezioni effimere dei santuari à répit

Terzo appuntamento con la rubrica a firma CICAP: stavolta andiamo alla scoperta del film Piccolo Corpo e dei suoi segreti...

Piccolo Corpo
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Dopo essere stato presentato alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes e al Torino Film Festival, arriva nelle sale Piccolo corpo, della regista Laura Samani: un dramma intimo e suggestivo sul tema dell’elaborazione del lutto, il bisogno di ribellione, l’autodeterminazione femminile e la ricerca del divino. Di seguito vi riassumiamo la trama di Piccolo Corpo.

Piccolo Corpo: la trama

Piccolo Corpo, recitato in dialetto, segue la vicenda di Agata (Celeste Crescutti) che agli inizi del Novecento, in una sperduta isola friulana, dà alla luce una bambina morta.

Incapace di rassegnarsi e preoccupata per l’anima di sua figlia (che, secondo la tradizione cattolica, è destinata al limbo), la donna scappa di casa alla ricerca di un miracolo: ha sentito che lassù, tra le montagne della Carnia, c’è un santuario in cui i neonati tornano in vita per il tempo di un respiro; è quello che basta perché i bambini possano essere battezzati e destinati al Paradiso…

E così, con un atto di ribellione, Agata lascia la sua isola con il corpicino della figlia in una scatola, che trasporta sulla schiena attraverso boschi e vallate. Nel faticoso viaggio raccontato in Piccolo Corpo incontrerà persone infide e opportuniste, ma anche gente compassionevole e disposta ad aiutarla; tra queste Lince (Ondina Quadri), un personaggio “al di là dei generi”, che le farà da guida e si dimostrerà indispensabile per trovare la strada verso il “miracolo”. 

Ma da dove nasce l’idea di Piccolo Corpo? Laura Samani l’ha raccontato al ilFriuli, in occasione dell’anteprima nazionale andata in scena a Udine: 

“Nel 2016 scoprivo che a Trava, nel mio Friuli Venezia‐Giulia, esiste un santuario dove, fino alla fine del Diciannovesimo secolo, avvenivano miracoli particolari: si diceva che lì si potessero riportare in vita i bambini nati morti, per il tempo di un respiro. La storia di questi miracoli si è impigliata in qualche anfratto dentro di me ed è rimasta lì a chiedere attenzione.”

Oltre Piccolo Corpo: il destino dei non battezzati

Il santuario di Trava non è un unicum nel panorama italiano. Nella tradizione cattolica, il destino dei bambini nati morti è sempre stato un grosso problema teologico. 

Da una parte, la maggior parte degli studiosi considerava il battesimo indispensabile alla salvezza, l’unico modo per lavare le anime dal peccato originale; dall’altra, si trattava comunque di bambini che non avevano commesso alcuna cattiva azione, e che si trovavano dannati senza colpe. Su di loro scriveva Sant’Agostino: 

“Molto inganna e s’inganna chi insegna che non saranno nella condanna.”

Come conciliare tutto questo con l’idea della giustizia divina, e con l’aspirazione di Dio alla salvezza per tutti gli esseri umani?

La teologia medioevale ci provò con il limbo: un “lembo” di terra, appunto, a cui le anime prive di battesimo sarebbero state destinate nell’aldilà; prive della gioia della contemplazione divina, ma comunque lontane dalle sofferenze dell’inferno.

Fino al Concilio Vaticano II, questa rimase più o meno la risposta ufficiale della Chiesa cattolica, pur non essendo un dogma. Solo recentemente, con Benedetto XVI, la rotta è un po’ cambiata. I neonati morti possono essere affidati alla Misericordia divina, e:

“Vi sono ragioni teologiche e liturgiche per motivare la speranza che i bambini morti senza Battesimo possano essere salvati e introdotti nella beatitudine eterna, sebbene su questo problema non ci sia un insegnamento esplicito della Rivelazione”.

(Commissione Teologica Internazionale, gennaio 2007)

Fino a poco tempo fa, però, le cose andavano diversamente: i non battezzati erano destinati al Limbo, non potevano essere sepolti in terra consacrata e i genitori non li avrebbero potuti riabbracciare nell’aldilà.

E così, la religiosità popolare assegnò a quei sfortunati bambini destini diversi: li trasformò in fantasmi destinati a vagare sulla terra, piccoli folletti dal berretto rosso o cagnoli ululanti. Ma inventò anche i santuari à répit, destinati a riportarli in vita per il tempo di un respiro.  

I santuari della “doppia morte”

Il termine répit è stato oggetto di dibattito: potrebbe significare proprio “respiro”, sulla base di un termine diffuso in Piccardia; ma secondo altri studiosi sarebbe invece legato al concetto di “intervallo” o di “rispetto”. Al di là del nome, però, la loro presenza è un dato di fatto ed è stata oggetto di numerosi studi. 

In Italia, questi santuari specializzati in “resurrezioni effimere” sono stati particolarmente studiati dalla storica Fiorella Mattioli Carcano, che ne ha scritto in “Santuari à répit. Il rito del «ritorno alla vita» o «doppia morte» nei luoghi santi delle Alpi“ (Priuli&Verlucca, 2009). 

Nel nostro Paese i santuari à répit sembrano presenti soprattutto nelle regioni del Nord, in particolare al confine con la Francia e lungo l’arco alpino: ne fanno parte sicuramente la cappella di Sant’Orso a Piasco (CN) e l’oratorio di Santa Maria della Gelata a Soriso (NO), ma anche il Santuario della Madonna delle Grondici a Panicale (PG).

Oltre ovviamente alla destinazione del Piccolo corpo, il santuario della Madonna di Trava a Lauco (UD), attivo a partire dalla seconda metà del Sedicesimo secolo (forse sulla scia di riti analoghi praticati a Santa Maria Luggau, a Lesachtal, in Carinzia). Potete ascoltare qui un’interessante conferenza su questi luoghi, tenuta nel 2020 dalla Società Friulana di Archeologia.

L’identificazione di questi santuari non è sempre facile: in Italia ne sono stati trovati una cinquantina, circa 200 all’estero, ma in molti casi si tratta di tradizioni ormai dimenticate, che si diffusero tra il Decimo e il Diciottesimo secolo per poi scomparire per sempre (in alcuni luoghi, però, i “miracoli” perdurarono ben più a lungo, fino all’Ottocento inoltrato).

Il rituale della piuma

Ma come si svolgeva il rituale? Secondo la tradizione, i genitori portavano i cadaverini in queste chiese “specializzate”, trasportandoli a mano, con cavalli o carriole in viaggi che potevano durare anche un paio di settimane.

Il bambino morto veniva esposto sull’altare e veniva invocata l’intercessione di un santo (spesso la Madonna, ma in alcuni luoghi della Provenza si ricorreva anche all’inesistente San Transir). La cerimonia si svolgeva sovente alla presenza di levatrici o altri osservatori “qualificati”, che avevano il compito di verificare la presenza di segni “oggettivi” di resurrezione. 

Dopo preghiere e litanie, sulla bocca del neonato veniva posizionata una piuma: se questa si muoveva (o se si verificavano altri segni di ritorno in vita), era la prova che il corpicino aveva respirato.

Immediatamente, i presenti si affrettavano a somministrare il battesimo sub condicione (a condizione, cioè, che il bambino fosse davvero resuscitato, secondo la formula “se sei vivo io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”). A questo punto l’anima era salva, e il cadaverino poteva essere finalmente sepolto in terra consacrata. 

Leggendo i resoconti, certo, di miracoloso non c’era poi molto: i neonati venivano esposti pubblicamente, in un’atmosfera di forte attesa e suggestione collettiva. Bastava una corrente d’aria, il respiro di qualcuno, la semplice forza di gravità, per poter dire che la piuma si era mossa e che il bambino aveva respirato.

Ma venivano considerati segni di resurrezione anche contrazioni muscolari, movimenti delle membra, arrossamenti delle guance, mutamenti di colore, presenza di sudore, aumento della temperatura corporea, gocce di sangue o muco che fuoriuscivano dalla bocca o dalle narici del cadavere (i corpi, lo ricordiamo, arrivavano spesso al santuario dopo giorni e giorni di viaggio). 

Ogni più piccolo cambiamento, vero o presunto, nell’aspetto del morticino veniva interpretato come la prova del miracolo. La procedura doveva dar luogo a molti “falsi positivi”.

Ma in fondo, se la resurrezione avveniva, ci guadagnavano tutti: i genitori erano felici di aver salvato l’anima dei propri figli, i bimbi “tornati alla vita per un respiro” potevano esser sepolti con tutti i crismi del caso, i santuari aumentavano il proprio prestigio e le proprie donazioni (i genitori, consolati, facevano arrivare alla chiesa offerte ed ex-voto).

Purtroppo, non sempre il miracolo si verificava: a volte, nonostante le preghiere e la buona volontà, nessun segno si manifestava. In alcuni casi allora i bambini, non potendo essere destinati ai cimiteri “regolari”, venivano sepolti tutti intorno al santuario: l’acqua, colando dalle grondaie, avrebbe lavato un po’ di quel peccato originale che il battesimo avrebbe dovuto levare.

È grazie a questo che sono stati individuati alcuni dei santuari à répit: se scavando intorno a un edificio religioso vengono fuori molti scheletri di neonati (e magari nei registri parrocchiali sono registrati misteriosi casi di resurrezione), è possibile che il luogo fosse specializzato in questo genere di miracoli.

La contrarietà della Chiesa

Inutile dire che la Chiesa non vedeva di buon occhio i rituali del répit: frutto della religiosità popolare, si prestavano troppo spesso ad abusi per venir tollerati. Se spesso erano i parroci e i rettori dei santuari ad autorizzare i rituali, altrettanto frequentemente i loro superiori correvano a bacchettarli: sono numerose le lettere di vescovi, giunte fino a noi, che intimavano ai sacerdoti la cessazione di quelle pratiche superstiziose.  

Condanne ufficiali della pratica si trovano fin dagli Statuti Sinodali di Langres del 1479, in cui si legge:

“Rinnovando le costituzioni del nostro predecessore Mons. Philippe condanniamo e deploriamo decisamente l’abuso [del sacramento battesimale] per i bambini soffocati nel seno materno e comunemente detti nati morti, a cui nel passato veniva conferito il battesimo, permettendo poi la sepoltura nei cimiteri delle chiese, dopo averli portati talvolta in chiesa e depositati davanti all’immagine dei santi per un certo numero di giorni e di notti e che, benché gelidi e duri come un bastone, ritrovavano la flessibilità sotto l’azione di un fuoco di carbone, e talvolta dei ceri e delle lampade accese, mostrando per qualche tempo un colore roseo e colando del sangue dalle loro narici, sembrando talvolta trasudare e mostrando pulsazioni alle vene del capo e del collo, sembrando che s’aprisse loro un occhio ed un soffio caldo esca dalle loro narici, al punto da far muovere una piuma che viene loro accostata. 

Poiché si tratta di un abuso lo vietiamo tassativamente sotto pena di scomunica e di ammenda, applicabile nella nostra città e nella nostra diocesi, interdicendo il battesimo e la sepoltura nel cimitero della chiesa ai bambini chiaramente privi di vita vera o presuntamente miracolosa. Poiché vi sono delle donne che il desiderio di denaro spinge a compromettersi in questi abusi, noi diffidiamo e proibiamo a tutti i sacerdoti di ricevere o ammettere da ora in poi queste donne nelle loro chiese per gli scopi suddetti”.

Ancora nel 1755 Benedetto XIV cercò di far cessare i “rituali di resurrezione”, vietandoli espressamente: ma inutilmente, visto che – come abbiamo visto – testimonianze di queste pratiche sono arrivate fin quasi ai giorni nostri.

Segno evidente che, pur in contrasto con la dottrina vigente, rispondevano a un fortissimo bisogno dei genitori: che, non avendo potuto sottrarre i loro figli alla morte, cercavano disperatamente di salvarne almeno l’anima.

Avete visto Piccolo Corpo? Trovate qui tutti gli altri approfondimenti a firma CICAP.

A cura di Sofia Lincos