Whoosh!, Deep Purple: l’onomatopea che racchiude una carriera

Usando come titolo del loro ultimo disco la trascrizione del verso che fa il vento, i Deep Purple vogliono dirci molte cose. Sul loro presente, sul loro passato, e sull'incerto futuro. Vediamole insieme con ordine.

Deep Purple - Whoosh!
Deep Purple: Video di Throw My Bones
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A 52 anni dall’esordio

Era l’estate del 1968 quando i Deep Purple (all’epoca Roundabout) rilasciarono il loro primo disco. La formazione della band era completamente diversa ai tempi. Basti pensare che al posto dell’acclamato Ian Gillan c’era un certo Rod Evans, amico e collega del batterista Ian Paice (unico membro fisso della band fin dagli albori). E che inoltre, al posto del grande Roger Glover, vi era un certo Nick Sampler, collega di Blackmore e Lord. Fu con l’abbandono di Evans e Sampler che Glover e Gillan poterono entrare in line-up creando quella mitica formazione che tutti rimpiangono. Ma se i Deep Purple senza né Glover né Gillan poterono incidere quella cover senza tempo che è “Hush“, perché gettare alle ortiche una formazione come quella attuale (con Morse e Airey in line-up) seppur non altrettanto sacra? Dopo 15 anni non ci si è fatta ancora l’abitudine? Che quest’articolo serva per lo più agli scettici incalliti, dimostrando che il vecchio non è sempre meglio. Spesso, è solo più comodo.

Il terzo di una trilogia?

Chiarita in fretta la questione detrattori, analizziamo la teoria secondo cui questo disco sia l’ultimo capitolo di un trittico discografico, formato da Now What?! del 2013, Infinite del 2017 e per l’appunto Whoosh!. Questo terzo tassello (uscito il 7 agosto di questo nefasto anno), a patto che sia l’ultima fatica della band britannica, segnerebbe la conclusione di un percorso collaborativo iniziato con Bob Ezrin 7 anni fa. Lo storico produttore, famoso per The Wall, Berlin di Lou Reed e gli esordi di Alice Cooper, agli inizi degli anni ’10 del 2000 si era dedicato alla produzione di artisti più moderni. Ma nel 2012 si fece carico delle nuove idee dei redivivi Deep Purple (assenti dalle sale di registrazione da quasi 10 anni), portandoli con sé a Nashville presso 3 diversi studios.

Fu lì che concepirono “Now What?!“, disco tremendamente legato alla memoria dell’amico e collega di una vita John Lord, passato a miglior vita pochi mesi prima delle registrazioni. I Deep Purple diedero così prova di una grande determinazione, filtrando sapientemente il proprio dolore attraverso le note. 4 anni più tardi, con Infinite, si ripeté la formula usata nel disco precedente: stesso produttore, stesso luogo, stesse sale di registrazione. Come rinunciare quindi ad una terza possibilità di riprodurre nuovamente questa formula di successo? Alla luce di ciò, si può quindi affermare che una trilogia c’è, seppur magari non ufficiale come può esserlo l’inarrivabile Trilogia Berlinese. Il fil rouge che collega i tre dischi non è un concetto, un’idea o un’astrazione, ma la concretezza manageriale di uno scaltro produttore come Bob Ezrin, consapevole che il genio inesauribile dei Deep Purple ha ancora molto da dire.

Nel vivo del disco

Si iniziano le danze con Throw my Bones, singolo che annunciò l’uscita del disco oramai quasi 5 mesi fa. Lo strumentalismo vecchio stile, tratto caratteristico della produzione dei Deep Purple, sopperisce alle difficoltà mostrate da Gillan nel raggiungere le note di un tempo, condizione che viene colmata con il notevole intimismo con cui affronta le liriche. I passaggi dal Rock al Funky rendono il brano estremamente coinvolgente. Un buon modo di iniziare il loro potenziale testamento artistico. Proseguendo, Drop the Weapon incarna il tentativo di dimostrare al pubblico (anche ai più affezionati) che i Deep Purple sono ancora in grado di stupire, senza fossilizzarsi sul sound cui ci hanno abituati da ormai più mezzo di secolo. La terza traccia, We’re All the Same in the Dark, esprime l’abilità dei Deep Purple di distendere le dinamiche lì dove organi e cori potrebbero inondare il pezzo di barocchismi, costruendo alla fine un brano sapientemente equilibrato.

Ad un terzo del disco incontriamo Nothing At All. Qui la band si sposta su territori più progressive, accentuati dai funambolici passaggi di Airey, che accorciano di molto la distanza tra la sua band e i nostrani PFM. Evanescente e leggiadra, la traccia rappresenta un highlight del disco. Saranno invece Glover e Paice a farsi colonne portanti del brano successivo. In No Need To Shout riecheggia infatti il sound dei DP di fine ’70 ed inizi anni ’80, e stupisce con un groove incisivo e mordace. Atmosfere oscure e presenza vocale minima caratterizzano “Step by Step“, la cui inedita profondità vocale si accompagna caldamente ad un hard rock funkeggiante squisitamente seventies.

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Omaggi appassionati

Siamo a metà del disco. A questo punto i Deep Purple decidono di omaggiare quell’intera generazione di pionieri musicali che gli hanno ispirati a diventare ciò che sono e che per sempre saranno, anche dovesse essere il loro ultimo lavoro. Ci riferiamo ovviamente a What the What, incrocio formidabile tra rock, blues e boggie woogie che costituisce un atto di riverenza nei confronti dell’architetto del rock and roll: Little Richard. Dopo questo nostalgico e notevole throwback, irrompe sonoramente The Long Way Round, dove la band si sbizzarrisce oltremodo, quasi come se finora si fosse trattenuta. Ciò si riconferma in The Power of the Moon, pezzo glaciale che sembra uscito da un disco dei Porcupine Tree. Arriva prepotente un Roger Glover distortissimo e quasi metal in Remission Possible, una breve ma forsennata strumentale che fa da apripista al vero brano di spicco dell’intero disco:

Man Alive, una sorta di poema epico moderno in cui Gillan denuncia lo sfruttamento del pianeta da parte del genere umano. I riff classici di chitarra si innestano impeccabilmente sulle sinuose tastiere, creando un riuscitissimo contrasto di suoni concreti ed eterei che ne fanno il brano più avvolgente di tutto Whoosh!. Procedendo con la traccia seguente, si torna alla formula dell’omaggio, stavolta il più sentito di tutti. La cover del loro stesso brano strumentale (And the Address), contenuto nel primissimo disco dei Deep Purple, accennato ad inizio articolo, è un chiaro inno in memoria del defunto ed insostituibile John Lord, nonché un omaggio al collega ed amico Ritchie Blackmore. Morse e Airey, dall’alto della loro esperienza, reggono benissimo il confronto.

Un soffio di vento

È con Dancing in My Sleep, traccia col piede in due scarpe (il neo-prog e il rock d’annata), che si chiude il ventunesimo disco dei Deep Purple. I quasi due mesi di posticipo dovuti al Covid-19 sono stati ampiamente ripagati. Al di là delle recensioni negative, il disco è stato per lo più elogiato grazie al suo stile economico di scrittura, fattore riversatosi anche nella lunghezza dei brani, più brevi rispetto agli anni passati. Sono il suo anacronismo (in senso buono), la sua acuta spensieratezza (come suggerisce Gillan) e la possibilità che sia l’ultimo a renderlo un disco che vale la pena di essere ascoltato. 50 minuti che circoscrivono un’intera carriera. Sulla qualità non c’è quindi da discutere. Ma sul senso? Cos’è che evoca l’enigmatico titolo? Il brano Man Alive e le dichiarazioni di Gillan circa lo stesso rispondono solo parzialmente alla domanda.

«La natura transitoria dell’umanità sulla Terra». Questo è il nocciolo di quel brano a detta dello stesso Gillan. Ciò può in effetti sintetizzarsi con l’onomatopea di uno sbuffo di vento: Whoosh!. Quello stesso vento che implacabile può spazzar via ogni cosa. Ma l’essenza di questo splendido quanto inquietante concetto può essere colta a priori, semplicemente, guardando la copertina del disco. Un’astronauta (chiaro riferimento a “lo Scheletro Impossibile di James Patrick Hogan) giace eretto in un paesaggio arido. Il vento della civiltà (il progresso) lo ha portato lì. Il vento della vita (il tempo) lo ha fatto soccombere. Infine, un terzo vento (forse il più astratto) soffia via le sue polverose spoglie. Un elogio della crudeltà del tempo dunque, ben prima visivo che cantato.
Ma forse c’è anche dell’autobiografismo. L’astronauta è come i Deep Purple: pioniere di un tempo andato, un po’ polveroso, ma ancora in piedi.

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