La Macchia Mongolica, recensione del nuovo lavoro di Massimo Zamboni

La Macchia Mongolica
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La Macchia Mongolica esce oggi per Universal

Dai Marlene Kuntz a Le luci della centrale elettrica, moltissimi musicisti italiani vedono in Massimo Zamboni uno dei padri fondatori del punk italiano e una grandissima fonte d’ispirazione. La Macchia Mongolica è quindi un doppio appuntamento con il tempo. Non solo per la comunità musicale italiana, ma per Zamboni stesso, che compie un viaggio a ritroso di più di vent’anni. Torna in Mongolia, quella terra che ispirò Tabula rasa elettrificata, l’opera simbolo del suo gruppo storico CCCP/CSI. Questa volta però accompagna la figlia in una sorta di foscoliano ritorno alla patria spirituale: Caterina Zamboni è nata con la macchia mongolica, una voglia sulla pelle destinata a scomparire. Ed è in Mongolia che in Massimo sbocciò il sentimento paterno e il desiderio di avere un figlio.

Tentare un confronto tra La macchia mongolica e il disco-manifesto dei CSI crea solo fraintendimento sulla natura di questo nuovo lavoro. Sebbene sullo sfondo si muovano gli stessi presupposti, siamo di fronte a due opere totalmente differenti. E se in Tabula Rasa Elettrificata la narrazione era affidata alla vocalità punk di Giovanni Ferretti, e la Mongolia una conquista, ora quella terra viene evocata come un lontano miraggio attraverso un affresco musicale dalle atmosfere misticheggianti.

La Macchia Mongolica diventa quindi il personalissimo diario di un pellegrinaggio alle origini ancestrali della propria storia personale. Zamboni fa tesoro di più di vent’anni di sperimentazione sonora e versa in questa partitura di musica a programma mitologie ataviche e paesaggi sterminati, firmando l’opera certamente più complessa ed affascinante della sua carriera solistica.

La Macchia Mongolica e il fascino per il suono in purezza

Nella storia artistica di Zamboni la scrittura di colonne sonore è stata una tappa fondamentale della maturazione del suo stile. In queste occasioni ha avuto l’opportunità di acquisire con più solidità i principi della composizione e di cedere al fascino della musica strumentale. Questo disco è a tutti gli effetti il compimento di questo percorso. Non solo perché quasi interamente strumentale, ma perché assume i connotati di una vera e propria colonna sonora di quest’opera multimediale che è La Macchia Mongolica, di cui esistono un omonimo libro e un omonimo film.

Spariscono chiaramente le sonorità new wave del suo ultimo lavoro Sonata a Kreuzberg, nel quale, insieme ad Angela Baraldi e Cristiano Roversi, ha reinterpretato alcune pietre angolari delle sue memorie berlinesi. La Macchia Mongolica e la Sonata non condividono però solo il tema della rimembranza; nella piena maturità artistica Zamboni continua a muoversi nella completa padronanza della forma musicale e nell’utilizzo degli strumenti elettronici, seppur sotto connotati completamente differenti.

Se nella Sonata l’elettronica serviva a rielaborare sonorità di un’epoca temporalmente distante, ne La Macchia Mongolica evoca l’esotismo musicale di un oriente fisicamente lontano. A questa tessitura di synth e campionatori miscela vorticosi multi-tracking di chitarra, archi, fiati e strumenti non convenzionali, creando impasti timbrici davvero unici. Ad amplificare l’alone di ritualità l’utilizzo tribale delle percussioni di Simone Beneventi, che in Sugli Altaj, Huu o in Khovd dipinge feste e cerimonie mongoliche. In questa composizione totalmente strumentale l’unico intervento della voce è quello di Lunghe d’ombre, che parla esplicitamente di questa mistica e trascendente lontananza.

Lunghe d’ombre, nuvole lontane
ostentano le forme degli eroi
insistono di esistere lontane
insistono di esistere oltre noi

Memoria e memoria interna

Mongolia e Mongolia Interna. L’ultima traccia spazializza il suono, ampliandone le dimensioni e portandoci direttamente nella Mongolia che, bergsonianamente, esiste nella memoria di Zamboni. Ed è in fondo questa l’anima di un disco, essere continua rielaborazione dei ricordi dell’autore. Un ascolto che si fa esperienza, una musica che si fa fenomeno contemplativo, un’opera che esiste nelle stanze della memoria più intima.

Così partendo dal racconto orale del preludio Ome Ewe, La Macchia Mongolica trasmigra poi in un’ampia rapsodia in cui Zamboni non poteva che rivolgersi al puro suono per porgere la rappresentazione immediata del suo mondo interiore. La musica de La Macchia Mongolica è quella che Schopenauer indicava come forma suprema di arte, che esiste aldilà di qualsiasi realtà fenomenica e si nutre esclusivamente della Volontà, di quel noumeno spirituale che per Zamboni è inscindibilmente legato a questa terra.

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