Venezia 76 – Martin Eden, la recensione

Il film di Pietro Marcello porta in scena l'ormai conclamato talento di Luca Marinelli.

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Il cinema italiano contemporaneo continua a gareggiare ad armi pari con quello internazionale alla Mostra di Venezia, oggi con Martin Eden (stasera alle 21.20 su Rai 3).

Come una rappresentante prescelta del bel paese, la Campania è stata la favorita degli italiani in concorso e non. Dopo Il sindaco del rione Sanità e 5 è il numero perfetto, oggi tocca alla trasposizione cinematografica di Martin Eden, che Pietro Marcello sceglie di far sbarcare proprio a Napoli. Il capolavoro di Jack London rivive così in un contesto completamente nuovo, ma sicuramente perfetto per la traiettoria del film.

Quale migliore scenario per un marinaio illetterato che incontra l’amore e la cultura, legandoli indissolubilmente alla propria vita. Luca Marinelli così porta in scena il suo intenso e tragico Martin Eden, spazzando via con il suo conclamato talento qualsiasi possibile dubbio su un film non esente da difetti. Se è vero che chiunque non può che essere d’accordo sulla sua magnifica performance, è altrettanto evidente che il solo attore non è sufficiente alla perfetta riuscita del film.

Il linguaggio che sceglie Pietro Marcello è estremamente interessante.

A partire dalla grana delle immagini, che richiama quella di vecchie tecnologie leggere come la Super 8. Spesso così il regista gioca come un’impressionista sulla tela: sembra quasi una dichiarazione programmatica quella del primo incontro di Martin Eden con l’arte. Se Baudelaire, primo dei libri che finiscono tra le sue mani, preannuncia lo spleen del protagonista, il quadro sul cavalletto è un evidente indirizzo pittorico del film. La musica di Debussy, impressionistica per definizione nelle pagine pianistiche e nel Prélude à laprèsmidi d’un faune, completa i riferimenti artistici dell’opera.

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Martin Eden

Il regista sfrutta al meglio anche la bellezza dei suoi protagonisti. Alcuni primi piani sono dei veri e propri ritratti, capaci di trasmettere da soli l’intensità emotiva del dramma. A questi si alternano campi lunghissimi che un documentarista come Pietro Marcello padroneggia con capacità e parsimonia. Senza dubbio nella prima parte del film l’autore riesce a esprimersi al meglio, completando la ricercata fotografia con onirici innesti narrativi: l’autore è impressionistico anche nel montaggio, utilizzandone soprattutto le strutture descrittive. Sogni, ricordi e racconti di Martin Eden si miscelano in magnifiche immagini che, quasi come ispirato dal giovane Picasso, Marcello dipinge solo con tinte di blu o di seppia. Ciò arricchisce un film che fa dello stile registico un suo punto di forza assoluto.

Non riesce a fare altrettanto nella seconda parte.

Pur rimanendo un’ottima messa in scena, il secondo atto affretta i ritmi della storia, con qualche ellissi di troppo su un racconto che fino a quel punto era stato gestito con compostezza. Sicuramente sua più grande debolezza, il film perde così la coesione che lo avrebbe reso una grande opera. L’assenza della commistione di stili che lo aveva caratterizzato fino a questo punto disperde il fascino della narrazione, che si ritrova così a diventare inutilmente tronfia.

Persino Russ Brissenden (Carlo Cecchi) avrebbe meritato forse più caratterizzazione, rimanendo un personaggio fin troppo enigmatico e poco approfondito. Per il resto il lavoro di Marcello è fedele all’originale, nonostante nel finale scelga toni meno tragici. Gli aggiunge però la capacità di trascendere e proiettarsi su tutto il Novecento. Decontestualizzandolo in una Napoli che allora potrebbe essere qualsiasi altra città, l’autore estrae da Martin Eden la carica simbolica che lo eleva a epitome dell’artista maledetto. L’illetterato che vede nella cultura il riscatto, che nelle sue opere non può fare a meno del sostrato dal quale proviene e che sente quindi tutta la distanza tra sé e la sua opera quando raggiunge il successo.

Martin Eden

 

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Una sorta di variazione retrograda sull’Ortis, l’eroe foscoliano prototipo dell’intellettuale che conosce l’amore, e la disperazione per la perdita di quest’ultimo. L’incolto Martin Eden riceve il dono dell’intelletto, e da questo discende l’amore, incapace di valicare i confini classisti. Il rifugio nell’arte a cui perviene Jacopo Ortis è il punto di partenza del protagonista di Jack London. Anche lui, seppur in maniera diametralmente opposta, giunge al disprezzo di sé e della sua stessa arte. Il dramma che emerge dall’interpretazione di Luca Marinelli riesce a ricongiungere queste due titaniche figure della storia della letteratura nel loro tragico fato.

Martin Eden è in pole per il premio come miglior film italiano.

Pietro Marcello riesce a marcare con la sua impronta autoriale un soggetto non nuovo a trasposizioni cinematografiche. Con originalità, il regista ne offre una sua visione interessante, forte di uno dei migliori attori italiani della scena. Allora forse è mancato all’autore il coraggio di sostenere le sue idee fino alla fine, scegliendo un compromesso che finisce per indebolirle. Un ottima visione che anticipa di pochi giorni l’uscita nelle sale. Il 5 settembre sarà infatti nei cinema di tutta Italia, pronto a presentarsi al grande pubblico nella sua, imperfetta, bellezza.