Animal Kingdom: l’epopea di un’anima alla ricerca della redenzione

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Con Animal Kingdom, Dean Kavanagh si appella alle profondità extrasensoriali dell’inconscio collettivo, dove la narrazione non ha più senso di esistere.

Un’anima dannata si perde tra i meandri incandescenti degli inferi. Accerchiata dallo squallore, vede il nulla. Percepisce nient’altro che il caos. Nell’oscurità crede di intravedere la luminosità della salvezza. Animal Kingdom è un’odissea spirituale, una visione onirica dall’effetto catartico, messinscena dell’epopea di uno spirito desideroso di abbandonare la diabolica perversità della mondanità, alla ricerca della redenzione.

Lo smarrimento della dannazione, la ricerca di una purezza primitiva ormai perduta, l’ascesa e la riunione con l’estasi paradisiaca. Le tre fasi della ritualità eleusina si alternano incessantemente, avvicendandosi come sillabe sacre di un mantra, inviolabile e divino. Si susseguono trasformazione e retro-metamorfosi: l’uomo trasfigura in animale, tornando poi, di nuovo, alla disarmonica bestialità della sembianza umana.

Il perpetuo movimento della metamorfosi diventa il fil rouge dell’intera opera – allegoria di un processo di conversione –, riuscendo a congiungere eventi totalmente eterogenei, a tratti antitetici e inconciliabili.

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Il demiurgo non fornisce spiegazioni. Mancano totalmente appigli alla realtà dell’esperienza quotidiana. Non esistono identificazioni immediate. Ricorrendo ad un esordio in medias rescriptico e straniante, Kavanagh stabilisce ex abrupto una relazione intima e profonda con il fruitore dell’opera, capovolgendo il consueto rapporto gerarchico, dominato dalla supremazia del creatore nei confronti del destinatario, solitamente così subordinato da risultare totalmente oppresso, eliminato.

Sfumando impercettibilmente, i confini dell’Io-artista si confondono con quelli dell’Io-spettatore. La soggettività della conoscenza esperienziale della materia narrata svanisce improvvisamente: la vicenda, precedentemente vista in prima persona dal regista-demiurgo, si trasforma in un vissuto estraneo all’esperienza sensibile del soggetto narrante, un vissuto di cui si è solamente sentito dire, un vissuto mai vissuto. Si genera l’ambiguità. Ancora una volta. E, con essa, si amplia la difficoltà interpretativa.

Si rincorrono allusioni suggestive, che trovano la propria immensa potenza nella loro manifesta indecifrabilità. Le rigide determinazioni spazio-temporali evaporano, presentandosi in maniera effimera, sfuggente. Si susseguono immagini che giocano con lo spettatore, che lo mettono in difficoltà, che lo aiutano a capire pienamente ciò che viene narrato. Esplicitata nella totalità delle scelte stilistiche, l’ambiguità domina l’opera: il contenuto si riflette nella forma; la forma si trasforma in contenuto.

Il confuso apparato stilistico del lungometraggio diventa specchio dell’enigmaticità e dell’incomprensibilità che regnano nel singolo come nella comunità, nella storia individuale come nella Storia collettiva.

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Muovendosi, accompagnato dal regista, tra un’infinitudine di punti di vista, lo spettatore assiste alla continua reversibilità tra verità e inganno, tra realtà e apparenza.

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L’occhio del narratore, tramite il quale lo spettatore viene a conoscenza della materia raccontata, trasfigura in estensione del nostro organismo, del nostro apparato visivo, diventando il messaggero di una dimensione sconosciuta, immagine di una realtà qualitativamente opposta alla nostra. Lo spettro del reale si amplia, allargandosi. I sensi si potenziano, percepiscono l’impercettibile. Animal Kingdom è il ritratto di tale macrocosmo, extra-sensoriale e dalle sembianze quasi ultraterrene.

L’autore tesse ingegnosamente un racconto metanarrativo dalla struttura labirintica, dove lo spettatore non può fare altro che bearsi del proprio smarrimento in un universo costellato di caotiche avventure. Creando un effetto di confusione e precarietà, l’illogica successione di giorno e notte, la rottura degli schemi narrativi propri del cinema tradizionale e l’oscurità della materia – esasperata da Kavanagh attraverso la tortuosità dell’espressione – conducono alla perdita di ogni certezza: il narrato si trasforma in metafora della vita, un eterno viaggio alla ricerca di una luce che, per quanto precaria, possa illuminare l’oscurità del nostro essere.

Nel caos, la gratificante verità del finale non può esistere. L’esistenza non può avere senso.


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Animal Kingdom: the odyssey of a soul in search of its redemption

A damned soul has lost itself between the incandescent meanders of the hell. Suffocated by squalor, it does see nothing. It does not feel anything, but chaos. It imagines to have glimpsed the bright light of salvation in the devilish obscurities. Animal Kingdom is a spiritual odyssey, an oneiric vision that has a strongly cathartic effect, a representation of the journey of a spirit that desires to abandon the diabolic perversity of mundanity, of a spirit in pursuit of its own redemption.

Through Animal Kingdom, Dean Kavanagh appeals to the extra-sensorial profundities of the collective unconscious, in which the traditional descriptive narration has no reason to exist.

The three phases of the heleusian rituals – the loss due to damnation, the search of a long lost primitive pureness, the ascent and the following reunion with the paradisiac ecstasy – follow each other unceasingly, alternating just like sacred syllables of a divine and inviolable mantra. Transformations and metamorphosis follow each other, dominating the entire film: man transfigures, becoming animal, then returns again in the inharmonic bestiality of his human semblance.

The perpetual movement of metamorphosis is the leitmotif of the entire work – an allegory of a process of conversation – and manages to unite totally heterogeneous event, sometimes antithetical and irreconcilable.

The demiurge does not add any explication. There are no foothold to reality, to the quotidian experiences. No immediate identifications.

Through an in medias res opening, cryptic and alienating, Kavanagh establishes ex abrupto a strong, deep and intimate relation between himself and the viewer, reversing their consuetudinary hierarchical relationship, characterized by the supremacy of the creator over the addressee, which – habitually subordinated – results to be totally oppressed, completely eliminated.

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The borders of the artist fade imperceptibly, blending with the viewer’s ones. The subjectivity of the experiential knowledge of the narrated matter suddenly vanishes: the story – previously presented in the first person from the director-demiurge’s view – becomes an experience alien to the narrating subject’s sensitive experience, an experience that we have only heard about, an experience never lived. Ambiguity is generated once again. And, with it, the difficulty of interpretation is widened.

Suggestive allusions – which find their immense power in their manifest indecipherability – are chasing each other The rigid spatio-temporal determinations evaporate, presenting themselves in an ephemeral and elusive way. Images play with the viewer, put him in difficulty, without helping him in fully understand what is being told. Ambiguity dominates the film: the content is reflected in the form; the shape turns into content.

The deliberately confused stylistic apparatus becomes a mirror of the enigma and the incomprehensibility that reign in the individual as in the community, in individual history as in the collective History.

The eye of the narrator – through which the spectator becomes aware of the matter recounted – transfigures into an extension of our organism, of our visual apparatus, becoming the messenger of an unknown dimension, an image of a reality qualitatively opposed to ours. The spectrum of reality is widening, expanding. The senses are strengthened, they perceive the imperceptible. Animal Kingdom is the portrait of this extra-sensorial macrocosm, which has an almost ultraterrene appearance.

Moving, accompanied by the director, between an infinite number of points of view, the viewer finally witnesses the continuous reversibility between truth and deception, between reality and appearance.

The author ingeniously creates a metanarrative tale from the labyrinthine structure, where the spectator can not help but bear his own bewilderment in a chaotic universe.

Creating an effect of confusion and precariousness, the illogical succession of day and night, the breaking of the narrative patterns typical of traditional cinema and the obscurity of matter – exasperated by Kavanagh through the tortuosity of expression – lead to the loss of all certainty: the narrative becomes a metaphor of life, an eternal journey in search of a light that, even if precarious, can illuminate the darkness of our being.

In chaos, the gratifying truth of the ending can not exist. Existence can not make sense.