Ogni generazione ha il suo Dracula. Dopo il demone aristocratico di Bela Lugosi, il tragico amante di Gary Oldman e la furia animalesca dei recenti remake, ecco arrivare il Conte di Luc Besson: un’anima smarrita che si muove in equilibrio fra la luce e la colpa, sospesa fra l’amore eterno e il rimorso infinito.
Con Dracula – L’amore perduto, Besson torna a raccontare l’impossibilità dell’amore in un mondo corrotto dal potere e dalla violenza, un tema che lo accompagna dai tempi di Léon. Ma qui, il regista francese compie un gesto ancora più audace: sottrae il mito all’horror e lo restituisce alla tragedia umana, spogliandolo di mostruosità per vestirlo di malinconia.
Nel XV secolo, il principe Vlad (Caleb Landry Jones) perde la moglie Elisabeta (Zoë Bleu) e, accecato dal dolore, rinnega Dio, condannandosi all’immortalità come vampiro. Secoli dopo, in una Parigi contemporanea, incontra una giovane donna identica alla sua amata, Mina (sempre interpretata da Zoë Bleu). Mentre un enigmatico sacerdote (Christoph Waltz) tenta di riportarlo alla fede, Vlad deve scegliere se abbracciare ancora la vita eterna o lasciarsi finalmente morire per amore.
Caleb Landry Jones, attore magnetico e inquieto, già visto in Nitram, Dogman e Tre Manifesti a Ebbing, Missouri, offre un’interpretazione di Dracula che fonde fragilità e potenza. Non è il predatore elegante che conosciamo, ma un corpo che soffre, un uomo intrappolato in un desiderio impossibile da spegnere.
Accanto a lui, Zoë Bleu interpreta la doppia incarnazione dell’amata: Elisabeta nel passato e Mina nel presente, due volti della stessa anima che il destino condanna a rincontrarsi e a separarsi in eterno.
Luc Besson non gira un film di paura. Il suo Dracula – L’amore perduto non è il mostro che esce di notte per nutrirsi: è un uomo che si consuma lentamente, cercando nel sangue altrui una traccia della propria umanità perduta. Il sangue, in questa versione, non è veicolo di morte ma di memoria: è ciò che lega un corpo all’altro, ciò che trasmette ricordi e sensazioni, ciò che mantiene vivo l’amore oltre il tempo.
Luc Besson trasforma così il vampirismo in un linguaggio lirico, una condizione dell’anima più che del corpo. Ogni inquadratura, ogni movimento di macchina racconta la fatica di esistere per sempre. Il titolo L’amore perduto racchiude la chiave del film.
Tutto ruota attorno a un’unica, ossessiva domanda: quanto può sopravvivere l’amore? Besson risponde con immagini più che con parole: i corpi che si sfiorano e poi si dissolvono, i volti che ritornano in reincarnazioni diverse, le lettere che non arrivano mai a destinazione.
La relazione fra Dracula e la donna amata non è erotismo, ma condanna. Ogni volta che la ritrova, lui la perde di nuovo, come se l’universo si opponesse a quel legame. È un eterno ritorno della sofferenza, un ciclo che solo la rinuncia può spezzare.
In Dracula – L’amore perduto c’è una tensione costante fra il lirismo e la materia. Luc Besson alterna scene di guerra, dure e fisiche, a momenti quasi mistici di contemplazione. L’inizio, con la battaglia sul campo insanguinato, è un’epopea di cavalli, lance e fiamme; il centro del film, invece, si ferma sul volto di Dracula che osserva la città moderna e non la riconosce. Il regista filma l’immortalità come una malattia: il vampiro è un sopravvissuto a cui il tempo non concede tregua.
Non tutto, però, in Dracula – L’amore perduto scorre con la stessa intensità. Luc Besson, fedele alla sua indole visionaria, indulge talvolta nel simbolismo: la luna che si riflette nel sangue, il crocifisso che si scioglie, la rosa che appassisce in un bicchiere. Sono immagini potenti, ma a volte troppo dichiarate, quasi a voler ribadire il significato invece di lasciarlo respirare.
Caleb Landry Jones è il cuore pulsante di Dracula – L’amore perduto. La sua fisicità nervosa, la voce rotta, gli occhi che oscillano fra la dolcezza e la follia, tutto contribuisce a creare un Dracula mai visto prima. È un vampiro che piange, che trema, che desidera ancora la redenzione. Jones porta sullo schermo la sofferenza del diverso, l’angoscia dell’uomo che ha perso il diritto di morire.
Zoë Bleu, nella duplice parte di Elisabeta e Mina, è fragile e ipnotica. Rappresenta la purezza del ricordo, la possibilità che l’amore sopravviva nel tempo senza contaminarsi. Christoph Waltz costruisce un personaggio enigmatico, a metà fra il sacerdote e il confessore, che osserva Dracula con compassione e orrore insieme. E Matilda De Angelis aggiunge al film una sensibilità moderna: il suo sguardo diventa il tramite fra il mito e lo spettatore, fra il passato e la contemporaneità.
La fotografia di Colin Wandersman in Dracula – L’amore perduto è un vero poema visivo. Lontana dai toni cupi del gotico classico, gioca su una luminosità dorata e su ombre liquide che sembrano respirare. L’alba e il tramonto diventano momenti sacri, in cui la luce non salva ma consuma.
Una delle immagini più potenti del film arriva quando Dracula attraversa la Senna al tramonto: ogni raggio di sole lo ferisce, ma lui continua a camminare, quasi volesse purificarsi nel dolore. Wandersman costruisce un universo visivo fatto di materia e spirito, dove la bellezza non consola ma punge.
La musica di Danny Elfman in Dracula – L’amore perduto accompagna la storia come un respiro antico. Lontano dalle sue partiture più gotiche e barocche (Batman, Edward Mani di Forbice), qui compone una colonna sonora sobria, dolente, costruita su corde e cori eterei.La sua musica non invade, ma accarezza: entra nei silenzi, li amplifica, li trasforma in preghiere. Nel finale, quando Dracula sceglie di esporsi al sole, l’orchestra si apre in un crescendo luminoso: non è la morte, ma un’ascensione.
Il montaggio in Dracula – L’amore perduto è alternato: sequenze contemplative, quasi pittoriche, si infrangono in improvvisi momenti di violenza. Il ritmo è irregolare, ma volutamente: rispecchia il battito irrequieto di un cuore che non può più morire.
Dracula – L’amore perduto è un film che divide: non spaventa, non intrattiene nel senso classico, ma lascia una traccia profonda. È un’opera poetica e difettosa, e proprio per questo viva. Besson non cerca la perfezione: cerca il battito.
Ci ricorda che l’amore, anche quando è sbagliato, anche quando distrugge, resta la forza più sovversiva che abbiamo. Non è un horror, non è un melodramma, non è un fantasy. È una tragedia luminosa, un’elegia sulla memoria e sul tempo. E quando scorrono i titoli di coda, mentre la musica sfuma e il sole illumina le rovine di un castello, resta solo un pensiero: che forse, dopotutto, il vero terrore non è la morte, ma vivere per sempre con ciò che abbiamo perduto.