Con Good Boy, Jan Komasa conferma il suo sguardo lucido e inquieto sul potere, ma lo sposta dal terreno sociale e religioso a quello domestico e psicologico. Dopo Corpus Christi e The Hater, il regista polacco affronta una nuova forma di “educazione morale”, trasformando una casa borghese in un laboratorio di manipolazione affettiva. Il risultato è un film claustrofobico e disturbante, dove la gentilezza si rivela la maschera più efficace della violenza.
Good Boy: la Trama
Dopo una notte di eccessi e disorientamento, il giovane Tommy, diciannovenne arrogante e disilluso, si risveglia incatenato nel seminterrato di una casa di campagna. I suoi carcerieri, Chris e Kathryn, una coppia dall’aspetto rispettabile e dalle maniere gentili, sostengono di volerlo “aiutare” a cambiare vita, a guarire dai suoi “errori”. Inizia così una rieducazione domestica fatta di regole, punizioni e ricompense, in cui ogni gesto quotidiano diventa un test di obbedienza.
Man mano che i giorni passano, in Good Boy la distinzione tra cura e prigionia si fa sempre più sottile: la violenza si traveste da disciplina, la gentilezza da controllo. Nel silenzio asettico di quella casa perfetta, Tommy scopre che la libertà non si perde solo con le catene, ma anche con la gratitudine forzata di chi pretende di voler “fare il tuo bene”.
Good Boy: la Recensione
Jan Komasa costruisce la storia di Good Boy come una lenta immersione nella psicologia della sottomissione. La casa, con la sua compostezza quasi religiosa, diventa una gabbia simbolica dove nulla è lasciato al caso: la disposizione dei mobili, le luci tenui, la calma dei dialoghi. Tutto sembra fatto per educare, per “rimettere al proprio posto” ciò che sfugge all’ordine.
Ogni scena in Good Boy si carica di un’ambiguità crescente. I toni dolci e misurati di Chris celano un fanatismo pedagogico inquietante, mentre Kathryn, figura più silenziosa, oscilla tra la complicità e il senso di colpa. Komasa non offre mai allo spettatore un punto di riferimento morale: la violenza che osserviamo è così raffinata da confondersi con la normalità.
Good Boy mette in discussione il concetto stesso di “aiuto”. Chris non è un torturatore, ma un educatore che ha trasformato l’etica in ossessione. La sua è una violenza giustificata, addolcita, didattica: quella del genitore, dell’insegnante, del sistema che dice “lo faccio per te”. È un meccanismo che ricorda la logica della nostra epoca, dove la libertà individuale viene spesso sacrificata sull’altare del miglioramento personale.
In Good Boy Jan Komasa ci mostra come il dominio più efficace non sia quello fisico, ma quello che ottiene il consenso della vittima. Tommy, pur resistendo, inizia a interiorizzare le regole, a ringraziare i suoi carcerieri, a comportarsi “bene”. L’educazione funziona: l’orrore più grande è che, alla fine, sembra quasi volersi meritare la loro approvazione.
Sul piano formale, Good Boy è un esercizio di controllo visivo e narrativo. Jan Komasa evita i toni gridati e lavora di sottrazione: inquadrature fisse, tempi dilatati, ambienti geometrici. Ogni movimento di macchina è ponderato, e la tensione nasce dalla distanza, non dal movimento. La fotografia, fredda e lattiginosa, restituisce una sensazione di sterilità morale, come se tutto fosse sospeso in un eterno presente.
Il regista dimostra una maestria assoluta nella gestione dello spazio: la casa è insieme rifugio, trappola e confessionale. La violenza non esplode mai apertamente; è suggerita dai gesti, dai silenzi, dalla luce che si spegne un istante prima di un urlo. È un cinema che non invade, ma avvolge lentamente, come un veleno.
Anson Boon costruisce un protagonista vulnerabile e imprevedibile. La sua recitazione è tutta fisicità, sguardo, respiro: Tommy non parla molto, ma il suo corpo racconta la trasformazione dall’istinto alla rassegnazione. Stephen Graham, nel ruolo di Chris, è magnetico nella sua calma patologica: il suo sorriso è una lama, la sua gentilezza una minaccia. Ogni parola è dosata con precisione da maestro.
Andrea Riseborough, come Kathryn, rappresenta l’ambiguità più sottile: la bontà che non si oppone al male, ma lo accompagna. La sua presenza è quella di una figura materna svuotata, una testimone passiva che incarna la forma più tragica di complicità: quella che nasce dal silenzio.
Il titolo Good Boy è un colpo di genio semantico. Nella sua apparente semplicità, racchiude l’intero senso del film: il desiderio di essere approvati, di essere “buoni” secondo gli standard di qualcun altro. È la lode che si rivolge a un cane addestrato ma che qui diventa il simbolo della condizione umana. La società, suggerisce Komasa, ci premia solo quando obbediamo, e chi rifiuta la regola è considerato un pericolo da correggere.
In questo senso, Good Boy non è solo una storia di prigionia, ma una metafora della cultura del controllo comportamentale. Viviamo in un mondo che esige bontà, ma spesso la confonde con la docilità. Tommy diventa l’immagine di un’intera generazione educata a conformarsi, a chiedere scusa per la propria rabbia, a considerare la libertà un eccesso da correggere.
Jan Komasa con Good Boy non cade mai nel moralismo. La sua regia mantiene una distanza etica che ricorda i grandi autori del realismo psicologico europeo, ma con una precisione moderna e visiva. Ogni scena è calibrata per mantenere lo spettatore in equilibrio tra empatia e repulsione. Non ci viene chiesto di “tifare” per nessuno, ma di riconoscere le dinamiche del potere dentro di noi.
Good Boy è tanto più disturbante quanto più è verosimile. Non ci sono mostri, né orrori sovrannaturali, ma solo esseri umani convinti di agire per il bene. In questo, Good Boy si colloca in una linea di cinema morale che interroga lo spettatore più che intrattenerlo: un cinema che, come diceva Kieslowski, “non dà risposte, ma pone domande necessarie”.
Nel rigore formale e nella compostezza glaciale di Good Boy si avverte l’eco del cinema di Michael Haneke. Come in Funny Games o Il nastro bianco, la violenza non esplode ma viene suggerita, disciplinata, “educata”. Entrambi i registi osservano il male con distanza chirurgica, rifiutando di offrirne giustificazioni o catarsi.
Haneke costruisce un dispositivo morale che espone lo spettatore al proprio voyeurismo; Komasa, invece, lo intrappola dentro la scena. Se il primo usa il distacco per denunciare, il secondo utilizza l’intimità per contaminare. Haneke ci costringe a guardare il male; Komasa in Good Boy ci fa sentire come potremmo esserne complici.
In entrambi i casi, la violenza serve a rivelare il punto di rottura tra l’ordine e la libertà. Ma mentre Haneke colpisce la società borghese con il gelo dell’astrazione, Komasa sposta l’attenzione sull’interiorità, sul bisogno umano di essere “corretti”. La sua casa-prigione diventa un confessionale del mondo moderno, dove la morale si confonde con la coercizione.
Good Boyè un film che rimane dentro, silenzioso e tossico, come un pensiero che non si riesce a scacciare. Jan Komasa conferma di essere uno dei registi europei più intelligenti e coerenti della sua generazione, capace di coniugare rigore formale e profondità psicologica senza cedere alla retorica.
Non è un film che cerca di piacere: preferisce disorientare. Mostra come la crudeltà possa indossare il volto della gentilezza e come l’educazione, se priva di libertà, diventi una forma di annientamento. Quando lo schermo si oscura, resta un dubbio amaro: cosa significa davvero essere “buoni”?