Dead Man’s Wire, recensione del film di Gus Van Sant

Ecco la nostra recensione di Dead Man’s Wire, nuovo film di Gus Van Sant presentato al Festival del Cinema di Venezia

Dead Man’s Wire
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A cura di Alice Rosa

Dead Man’s Wire, un pericoloso filo che collega passato e presente

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Presentato Fuori Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, Dead Man’s Wire è l’ultimo film di Gus Van Sant, regista di film come Elephant, Promised Land e Milk.

Van Sant aveva deciso di raccontare in maniera originale il massacro della Coloumbine High School e la storia di Harvey Milk, primo gay dichiarato ad aver raggiunto una carica pubblica negli Stati Uniti e anche in Dead Man’s Wire assistiamo nuovamente alla messa in scena di un reale caso di cronaca.

Dead Man’s Wire, la Trama

Veniamo catapultati nell’America degli anni Settanta, più precisamente l’8 febbraio 1977.

Tony Kiritsis entra nell’ufficio di Richard Hall, presidente della Meridian Mortgage Company e lo prende in ostaggio collegandolo con un cavo al grilletto del suo fucile (“dead man’s wire” sigifica letteralmente “il cavo di un uomo morto”). Il motivo? Tony si sente preso in giro dal sistema in cui è inserito, soprattutto dalla banca che secondo lui lo sta ingiustamente derubando dei propri soldi.

“Davide contro Golia” li ha recentemente definiti lo stesso regista in un’intervista, l’uomo comune che cerca di sconfiggere un mostro decisamente più grande e forte di lui. Nei panni dei due protagonisti troviamo rispettivamente Bill Skarsgård e Dacre Montgomery, due attori amati soprattutto dal pubblico dei più giovani, ma perfettamente in grado di risultare credibili anche in ruoli più impegnativi, come in questo caso.

Il primo ha raggiunto la fama planetaria interpretando It nell’omonimo film del 2017, mentre Dacre Montgomery è conosciuto soprattutto per il suo ruolo nella serie di successo Stranger Things.

Dead Man’s Wire: la Recensione

Skarsgård incarna un personaggio sovrastato dalle sue stesse emozioni, maldestro ma allo stesso tempo dominato da una sorta di follia organizzata – non va dimenticata l’idea di collegare un fucile al collo del proprio ostaggio. Richard, al contrario , non sembra essere prigioniero solo di un pazzo ma anche della compagnia per la quale lavora e ne riusciamo a cogliere tutte le incertezze.

Non si può dire lo stesso del padre, portato sulla scena grazie ad un sensazionale cameo di Al Pacino. Il suo volto scavato dal tempo è anche quello di chi ne ha viste tante, troppe per poter mostrare un po’ di umanità verso chiunque, anche verso il figlio. La realtà è quella di Nietzche, se guarderai a lungo nell’abisso, anche l’abisso guarderà dentro di te. Il sistema non può essere cambiato, non si può cercare empatia in qualcuno che ha il denaro come unico credo.

L’unica strada possibile è davvero quella della ribellione, del fucile puntato al collo dell’oppressore? La grana spessa delle immagini e l’abbigliamento retrò ci ricordano che il film è ambientato negli anni Settanta, ma potrebbe tranquillamente trattarsi di un episodio accaduto ai giorni nostri, poiché il clima di tensione è lo stesso.

Questo si unisce alla decisione di Gus Van Sant di mettere in scena una pellicola in grado di affrontare temi molto forti ma di alleggerirli preferendo il tono di una commedia nera fruibile dal grande pubblico e non del semplice dramma-poliziesco.

Le ultime immagini che vediamo sullo schermo sono quelle del vero Tony, al quale lo spettatore sente ormai di essersi in qualche modo affezionato… soprattutto dopo una scritta che il regista ha deciso di posizionare alla fine del film in maniera strategica: il colpo alla banca è stato l’evento scatenante, la ragione del fallimento della Meridian Mortgage Company solo pochi mesi dopo l’accaduto. La sensazione, contro ogni previsione, è che l’eroe travestito da villain (o viceversa) ne sia uscito

Che ne pensate? Andrete a vedere Dead Man’s Wire?