Gabriele Muccino è uno dei registi italiani più discussi degli ultimi decenni, capace di conquistare applausi e critiche con pari intensità . La sua carriera è un percorso segnato da determinazione, passione e una costante ricerca di identità , dentro e fuori dal grande schermo. Fin da giovanissimo, Muccino aveva chiaro quale fosse la sua strada: dietro la macchina da presa, raccontando storie che potessero connettersi con il pubblico e allo stesso tempo esprimere il suo mondo interiore.
Se oggi è noto come regista, all’inizio Muccino aveva un’altra ambizione: diventare veterinario. La passione per la natura e gli animali lo accompagnava dall’infanzia, ma fu intorno ai 18 anni che si verificò quella che lui definisce una vera epifania.
Mi sono reso conto che avevo dei limiti e che essere balbuziente rappresentava una barriera enorme: mi faceva sentire inadatto, non considerato e soprattutto non ascoltato – racconta Muccino al Messaggero.
Quella consapevolezza lo spinse a comprendere che il cinema sarebbe stato il mezzo per superare le proprie difficoltà e farsi conoscere. Nonostante gli anni Ottanta rappresentassero un periodo complicato per il cinema italiano, Muccino decise di affrontare la sfida senza esitazioni.
Si decise a tavolino che il cinema non dovesse essere più l’arte popolare che ci aveva fatto conoscere ovunque, ma un gioco da camera, polveroso e asfittico in cui gli intellettuali parlavano tra loro e lasciavano il pubblico fuori dall’uscio. Tanto che, oggi come allora, quando sento demonizzare la cultura popolare non capisco: quello che non è popolare non esiste
Nel corso degli anni, Muccino ha realizzato numerosi film e una serie televisiva, cimentandosi con storie capaci di conquistare grandi platee. La sua frustrazione emerge però quando vede improvvisazione o superficialità nel cinema:
Pur avendo incontrato qualche insuccesso, Muccino ha sempre trovato nel cinema una forma di riscatto personale e uno strumento per dare ordine al caos della vita:
Il successo de L’ultimo bacio fu travolgente, ma anche fonte di incomprensioni: Muccino fu etichettato in modi che non sentiva propri. Con Ricordati di me, i riconoscimenti ai David di Donatello suscitarono sorpresa tra gli addetti ai lavori:
Non sapendo esattamente quale darmi mi chiamavano il regista dei Parioli. Io ai Parioli non ho mai vissuto.
Anche la polarizzazione del pubblico giocò un ruolo fondamentale negli incassi dei suoi film, ma allo stesso tempo contribuì a creare una cattiva reputazione attorno al suo nome.
Negli Stati Uniti, Muccino ha vissuto un periodo che definisce complicato e frustrante. La rigidità e il conformismo del sistema hollywoodiano lo hanno portato a sentirsi sempre più distante:
Film drammatici come Sette anime oggi sarebbero impensabili come è impensabile che un regista bianco caucasico diriga un attore di colore. Siamo a dei livelli di conformismo incredibili e mi fa veramente molta tristezza, la stessa tristezza che ho respirato in quegli anni americani. Verso la fine proprio non ne potevo più. Avevo sviluppato una sorta di insofferenza verso questo loro modo sterile, arido, bugiardo e cinico di vivere che all’inizio mi ero illuso di poter gestire.