La perdita come orrore: il cinema dei fratelli Philippou, da Talk To Me a Bring Her Back

Philippou
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I fratelli Philippou, autori di Talk to Me e del recente Bring Her Back, già un cult, sono tra i registi horror più interessanti emersi negli ultimi anni: ecco perché il loro cinema è assolutamente da scoprire!

Chi l’avrebbe mai detto che i fratelli Philippou, autori del video Harry Potter Vs. Star Wars, avrebbero girato due film dell’orrore devastanti, capaci di rivitalizzare un genere?

L’horror, da sempre terreno fertile per l’indagine sociale e psicologica, sembra avere oggi un ulteriore nuovo filone, una nuova trama: è infatti dal finire degli anni ‘Dieci ’10 che circola il termine elevated horror, ovvero una etichetta data a film di genere che evitano il jump scare cercando di suscitare emozioni forti attraverso una riflessione, una introflessione su sé stessi e su temi complessi e profondi.

The Vvitch, Hereditary, Midsommar, e quindi registi come Jordan Peele, Robert Eggers, Ari Aster, sono gli esempi più lampanti: storie terrificanti che nascono da un’urgenza sociale, da una necessità di approfondimento su sè stessi e quindi sugli spettatori, sulle riflessioni sul cinema come medium.

Ma si sa, c’è sempre la matricola che arriva e con poche mosse spariglia le carte, in questo caso parliamo ovviamente di Danny e Michael Philippou, che nel giro di due estati – 2023 e 2025 – e altrettanti film – Talk To Me e Bring Her Back– hanno conquistato pubblico e critica e hanno imposto uno stile che, nei limiti dell’elevated horror, è già personalissimo e senza compromessi, viscerale, spaventoso.

Talk to Me: la dipendenza secondo i Philippou

Incredibile pensare che nel 2013 questi due aitanti ragazzotti australiani giravano video comici diffusi sul canale youtube RackaRacka (si, erano due youtuber!): il passo dell’anno successivo, la partecipazione alla produzione di Babadook di Jennifer Kent, li avvicina però di più al cinema vero e proprio, nel quale – mentre continuano a produrre una serie di video con una serie denominata House of Racka – nel 2022 debutteranno con Talk To Me, presentato al Festival di Cannes.

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locandina d Talk To Me, 2022, dei fratelli Philippou

Già sarebbe stato tanto sceneggiare e dirigere un’opera prima che non aveva i soliti problemi dei debutti (inesperienza nella gestione dello spazio e del tempo, eccessiva dipendenza dalle mode): in più, Talk To Me è un lavoro che vive tra rimandi analogici e nevrosi digitali, riuscendo in questo modo a catturare in maniera puntuale e sottilissima no dei tanti zeitgeist di questi anni confusi. Perché è una storia che nasce pian piano da un intricato gioco di fuori campi raggiungendo poi il suo apice nelle deviazioni del genere, mentre con disinvoltura e intelligenza parlano di un terrore paranoico che riflette il disagio tutto contemporaneo della mancanza di empatia dei soggetti più giovani e fragili.

Il recupero dell’emotività ecologica è il recupero dell’empatia oggi scomparsa

È proprio da questa osservazione della mancanza di empatia che scaturisce il tema portante del film, nascosto per buona parte da simbolismi e costruzioni traumatiche affastellate con sapienza per non svelare subito l’intento di Talk to Me: il recupero dell’emotività analogica è il recupero dell’empatia scomparsa.

In questo modo, si fa perdonare anche la piatta variazione sulla coming of age, riflettendo invece su affettività e dipendenza, e facendolo proprio mentre si indirizza ad un pubblico di elezione tra i più tradizionali per l’horror, ovvero gli adolescenti, che non solo vengono messi al centro del racconto con tutte le loro problematiche tipiche della Generazione Z, superficialissima e in perenne difficoltà per l’ascolto di sé stessa; ma anche permette al film di dialogare ad altezza di spettatore, allineando le età al di qua e al di là dello schermo, mentre spinge verso l’alto riflessioni e tematiche nonostante si parta dal teen-drama più scontato.

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Un orrore ad altezza di spettatore

È fin da quest’esordio baciato dalla fortuna al botteghino in maniera inaspettata che si mostra chiaramente la capacità migliore dei Philippou, ovvero il sapere collocare l’invasione dell’horror nel flusso del teen-drama senza mai perdere credibilità, il non far perdere la fiducia del patto con lo spettatore nel momento in cui si passa da tragedia famigliare ad escursione nelle zone buie dell’orrore più incredibile. In tutto questo, non è da dimenticare la componente carnale di questa tipologia di orrore raccontata dai fratelli, perchè autolesionismo e atti di agghiacciante violenza sono sciorinati a piene mani.

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da Talk To Me, 2022, dei fratelli Philippou

L’orrore di Talk To Me è qualcosa che non si spende e si esaurisce in un jump scare, ma deve fare male: perché è un orrore che scaturisce da un percorso interno. Da una perdita che porta ad una ricerca: una perdita che è dolorosa, una ricerca che non ammette sconti.

Perché è un percorso che va a braccetto con la dipendenza: che sia ad un legame, ad una sostanza, ad una persona poco importa, perché è una patologia autodistruttiva che divora dall’interno lacerando la propria consistenza fisica.

Ma l’orrore è il mezzo per raccontare il dolore anche nel secondo film, Bring Her Back.

Bring Her Back: la perdita e l’assenza secondo i Philippou

Il sophomore slump è un fenomeno che in genere si verifica durante il secondo anno di scuola (o università) e che è caratterizzato da un calo di motivazione, di prestazioni o di interesse, o ancora da incertezza e confusione: ed è un termine mutuato spesso dal cinema statunitense, per parlare delle seconde opere dei registi che hanno visto un esordio incredibilmente positivo ma che non confermano le aspettative.

Era di questo che avevano paura i Philippou: e allora si sono buttati con una storia completamente nuova e diversa, almeno nelle premesse narrative. Ha dichiarato Danny: “Una grande fonte di ispirazione è stata la sorellina di una nostra amica, che è non vedente e voleva prendere l’autobus da sola per la prima volta. La sua famiglia era davvero preoccupata e spaventata, ma lei cercava di spiegare loro che desiderava essere indipendente e imparare a orientarsi nel mondo da sola”.

Ho trovato quella discussione davvero interessante, perché riuscivo a comprendere entrambe le posizioni. Anche mentre scrivevo il film, parlandole, le ho chiesto se sentiva di perdersi qualcosa, se avrebbe voluto vedere, e lei ha risposto che era felice di non poter vedere, perché così non doveva guardare tutte le cose brutte del mondo, tutte le cose orribili. Si è trattato un’affermazione così toccante che è diventata il tema centrale di tutto il film”.

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locandina di Bring Her Back, 2025, dei fratelli Philippou

Già fin dalla fase dell’ideazione allora era chiaro che neanche Bring Her Back sarebbe stato un “semplice” film dell’orrore: ma una ricognizione nel mondo per capire dove si cela il vero orrore.

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Anche Bring Her Back allora è prima un dramma, poi un horror: e anche qua si parte da un approfondimento emotivo su rapporti interpersonali dolorosi, e da una perdita – per poi lentamente scivolare e anzi farsi inghiottire, in maniera naturale, nella paura, nell’incredibile. Uno sconfinamento nel fantastico che quasi suona liberatorio, perché svincola dalla quotidianità eventi così emotivamente dolorosi da essere un sollievo pensare che dipendano da una circostanza irreale.

Il dolore come grancassa per far risuonare gli angoli più bui dell’animo.

Prendere e lasciare

Parlami, riportala indietro: due titoli icastici, che riportano un’esortazione diretta, quindi un rapporto.

Così come un Talk To Me, anche in Bring Her Back c’è al centro una dipendenza, ma questa volta da una persona, da un affetto, da un amore: la dimensione è leggermente diversa, perché si parte dal considerare la lunghezza a cui ti spingi per amore rispetto al dolore. Ma il problema è che ognuno lo interpreta a modo suo.

Nel primo film dei Philippou, una ragazza perde la mamma e quindi reprime ogni slancio per liberarsi dalle catene del dolore, una catarsi negata che viene trasfigurata nel passaggio tra un universo paurosamente oscuro e il nostro; nel secondo, un padre e una figlia mancano rispettivamente, e all’improvviso, a due fratelli e una madre, annullando all’improvviso il limite visibile tra quell’universo oscuro e questo nostro, anche questa volta per la loro impossibilità e accettare di rielaborare il lutto.

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da Bring Her Back, 2025, dei fratelli Philippou

Tutto viene rielaborato in maniera ancora più coerente rispetto al film precedente, e gli scantonamenti sono più sfumati e per questo inquietanti: ma soprattutto, Bring Her Back è ancora più deciso rispetto a Talk To Me di puntellare la narrazione con flash di un gore insostenibile, che a differenza da quanto detto in maniera inconsulta qua e là non ha nulla del body horror (men che meno le ascendenze teoriche), ma si rifà ad una visione ben precisa che i Philippou hanno della messa in scena del dolore nel momento in cui diventa insostenibile. 

Le sceneggiature dei Philippou indagano sullo spaesamento provocato dalla perdita

In questa dimensione che il film diventa visionario, selvaggio, radicale e bellissimo (probabilmente uno degli horror del decennio), mentre si aggira con nonchalance tra stregoneria, found footage, cannibalismo, esorcismi, e addirittura rifiuta fino alla fine qualsiasi “spiegone” tipico del genere, obbligando lo spettatore a dover entrare nelle pieghe della storia, a dover tenere gli occhi aperti per ogni fotogramma, per poter avere una chiara linea dritta di quanto sta succedendo.

E nonostante questo, Bring Her Back fin dopo la sua conclusione continua ad avere i contorni di un enigma mai spiegato fino in fondo, perché alcuni pezzi del mosaico mancano, ma non è un buco di trama: è chiaramente la volontà di una sceneggiatura che continua ad indagare sullo spaesamento provocato dalla perdita, che porta ad accettare qualunque dolore ma ti costringe in un angolo senza più appigli, senza punti di riferimento, senza nessuna certezza – proprio la condizione di una dei protagonisti, quella condizione di cecità che porterà a vertici di inusitata crudeltà.

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