Flow, la recensione del film d’animazione privo di dialoghi

Flow
Condividi l'articolo

Flow è un nuovo gioiellino d’animazione, nelle sale italiane a partire dal 7 novembre, che vi lascerà come il suo protagonista: senza parole.

A volte ci vuole davvero poco per riuscire a lasciare un segno indelebile nello spettatore: certi film diventano iconici anche solo per una battuta brillante oppure per il carismatico personaggione di turno; a Flow, il nuovo film d’animazione del regista lettone Gints Zilbalodis, è bastato anche molto di meno, ossia lo sguardo terso di un gattino che ragiona sul fluire inesorabile della vita osservando da una pozzanghera il riflesso del proprio volto.

Flow è la dimostrazione di come le immagini possano valere molto di più delle parole e di come le buone idee, oltre a sviare l’attenzione da una evidente economia dei mezzi produttivi, possano essere tradotte in momenti di puro cinema, pregno di potenza visiva e di significati profondi.

image 230

Flow, la trama

Il sopraggiungere di un’ onda anomala costringe un gruppetto di animali, composto da un gatto, un capibara, un lemure, un labrador e un serpentario, a intraprendere, a bordo di una barca, un viaggio attraverso un oceano ricco di insidie, nel tentativo di raggiungere un luogo sicuro. Non sarà facile per loro combattere contro le proprie diffidenze nei confronti del prossimo, ma per poter sopravvivere è necessario imparare a collaborare.

image 229

Flow, la recensione

Le premesse del film di Gints Zilbalodis sembrano orientare le aspettative degli spettatori in direzione degli stilemi da road-movie: si pensi al viaggio inteso essenzialmente come “di crescita” oppure alla dinamica per la quale i rapporti che sono inizialmente disfunzionali finiscano inevitabilmente con il diventare intimi e fecondi.

Ma queste sono solo le premesse; infatti, che Flow non sia un film d’animazione come tanti altri lo si comincia a percepire man mano che ci si addentra sempre di più all’interno del suo meraviglioso mondo dalle tinte pastello. Qui, gli animali, al contrario di quanto ci hanno insegnato i film della Disney, non parlano e non si comportano come se fossero degli umani, e tutto questo è fantastico.

Le creature di Zilbalodis suggeriscono dei concetti, delle visioni del mondo, dei sogni e delle paure, esprimendosi esclusivamente attraverso i movimenti e gli sguardi. Il film è senza dubbio privo di dialoghi eppure, se si presta attenzione, i pensieri dei suoi protagonisti si percepiscono eccome, ed anche in maniera piuttosto precisa.

Il mondo di Flow, oltre a essere qualcosa di “mai sentito”, presenta anche dei connotati visivi particolarissimi: se guardando il film si ha come l’impressione di trovarsi di fronte a un gioco per Playstation 3, è perchè il motore grafico è più o meno lo stesso e lo si può notare chiaramente osservando ad esempio i volti dei personaggi, i cani specialmente, le cui texture riportano la mente ai cuccioli di Nintendogs.

Anche la regia, che opta molto spesso per dei lunghi piani sequenza, sembra ricalcare quella videoludica generando questo senso di forte immedesimazione che accompagna lo spettatore per tutta la visione di quello che è a tutti gli effetti un survival game.

Ci vuole tanto coraggio per proporre un lungometraggio realizzato con un software open source (e dunque gratuito) nella stessa epoca in cui sono stati prodotti anche gli Spider-verse; ci vuole un talento fuori dal comune per capovolgere una limitazione tecnica in una risorsa espressiva in grado di stupire lo spettatore.

Flow potrà anche non avere un comparto grafico degno delle produzioni animate degli ultimi anni, eppure l’universo che ci permette di ammirare è molto più che profondo e tridimensionale. Lo stile cartoonesco potrebbe ingannare, ma l’opera di Zilbalodis è pregna di riflessioni filosofiche sulla natura umana, sull’esistenza e sulla sua caducità.

Il film ci insegna che la vita è un flusso costante di alte e basse maree che ci tocca affrontare disponendo soltanto di una barca scassata e qualche marinaio maldestro. È complicato sfuggire al diluvio universale, lo è ancora di più quando si è semplicemente un gatto senza nome.

I protagonisti del film si imbarcano in un viaggio epico tra le macerie di un mondo che non è più come lo ricordavano, ma non è questa la vera odissea della quale si vuole parlare, che si scatena invece all’interno delle loro anime e che li porterà a maturare delle nuove consapevolezze.

Magari non serve a niente tentare di raggiungere la terraferma, forse nemmeno esiste un luogo all’asciutto; quello che conta, forse, è allargare i propri confini, provare a fidarsi di chi ci sta accanto e imparare ad accogliere quello che ci porta la corrente.

Di Giuseppe Savoca

Continuate a seguirci su LaScimmiaPensa e iscrivetevi al nostro canale WhatsApp