I Sette Samurai: perché il capolavoro di Akira Kurosawa rimane un cult senza tempo

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Perché riscoprire I Sette Samurai a distanza di settant’anni

I Sette Samurai: una storia senza tempo

I Sette Samurai di Akira Kurosawa, del 1954, rimane uno dei film più apprezzati della storia del cinema e simbolo della qualità assoluta della produzione filmica giapponese. La trama: un villaggio minacciato da alcuni predoni decide di ingaggiare dei samurai per difendersi, e si prepara a una dura lotta nella quale il debole arduamente infine trionfa sul violento.

L’opera di Kurosawa è spettacolare, realizzata con un budget altissimo di 210 milioni di yen, e mette in scena una ricostruzione precisa e stupefacente dell’epoca Sengoku con scenografie, costumi, effetti e personaggi tutti riuniti in uno splendido acquerello che, ciò non di meno, fa solo da sfondo a una storia avvincente e senza tempo, ripresa molteplici volte dal cinema anche occidentale.

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Tradizione e lotta per la sopravvivenza

Il film prende a piene mani dalla rappresentazione della tradizione giapponese, facendone il punto centrale in un kolossal che ne rappresenta ancora oggi per molti versi una delle più importanti riproposizioni moderne. In altre parole, molto di quel che visivamente conosciamo del Giappone medievale, dei costumi, delle usanze di allora e di figure come gli stessi samurai, ci viene da questo film.

La lotta dei contadini per sopravvivere con la loro attività e contro ogni ostilità è istintivamente familiare per il Giappone, un paese prevalentemente agricolo fino agli anni ’60; ma lo è anche per tutta l’umanità, che fin dagli albori ha dovuto sostenere una lotta simile, contando solo su colture e allevamento, nell’evolversi ed emanciparsi. Il messaggio è quindi d’importanza culturale non solo nazionale, ma universale.

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La riscoperta di una identità comune

C’è poi la figura del samurai, centrale nella storia giapponese come simbolo di autorità ma anche potenzialmente di pericolo, e sempre rilevante in un paese costantemente dilaniato da lotte interne. In questo caso il samurai assurge a icona di speranza, solidità e resistenza, volendo tra le righe fornire una direzione anche attuale a un paese, ricordiamolo, sconfitto in guerra, dilaniato dalle esplosioni atomiche e rovinato da anni di stretto imperialismo.

Nel film non conta però tanto la difesa contro i nemici quanto il senso di comunità e di ritrovata identità comune che ne emerge: gli abitanti del villaggio imparano non solo a difendersi ma a riconoscere i loro dubbi, le loro paure e le loro mancanze, mentre gli uomini più forti – i samurai – non abusano del loro potere ma ne fanno sorgente di virtù e insegnamento. In altre parole: come si costruisce una società che funziona.

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La forza della cultura e della tradizione

Certo, nella battaglia non tutto va bene e questa è un’altra grande lezione: tentare al meglio, senza sperare nella perfezione. E la grande forza d’animo dei combattenti, che all’inizio paiono senza speranza, non può che essere d’ispirazione in una storia emotiva, profonda e trascinante che ispira ancora oggi.

Akira Kurosawa mette in scena in definitiva – assieme al suo fedele Toshiro Mifune, star del cinema giapponese e in questo film personaggio più che memorabile – una grande lezione di vita che è anche una grande lezione di cinema: di come si racconta una storia per raccontare tante storie, e di quanta forza davvero la cultura e l’arte di un paese possono trasmettere.

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