Oz, l’Effetto Oswald e l’Esperimento Carcerario di Stanford: due concezioni della prigione umana a confronto

Oz
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La serie Oz e il famoso esperimento carcerario di Stanford hanno molto in comune ma propongono anche due visioni dell’incarcerazione diverse, in un’unica concezione dei più bassi istinti umani

L’esperimento carcerario di Stanford

“Certo bisogna farne di strada da una ginnastica di obbedienza fino a un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza”

Nella mia ora di libertà – Fabrizio De Andrè.

Nel 1971 un ragazzo, in una stanzetta spoglia, vestito come un carcerato, piange in preda a una crisi nervosa. Fuori dalla stanza è l’ora della conta, e gli altri “carcerati devono pronunciare il loro numero di matricola scritto sul camice, però la cosa degenera, e le guardie chiedono ai detenuti cose sempre più degradanti, passando dal far loro compiere flessioni, saltellare o cantare.

Ci sono molte regole (esattamente diciassette, fra cui rifarsi il letto e comparire alla “conta”) in quel seminterrato adibito a prigione. Ed è una prigione a tutti gli effetti. Ormai le guardie, vestite con una maglia color kaki e occhiali da sole a riflesso, manganello sempre in mano e atteggiamento alla John Wayne, ci hanno preso gusto a strillare ordini ai ragazzi in fila contro il muro, loro coetanei e colleghi universitari.

Quel giovane detenuto è al limite, c’è stata perfino una rivolta da parte degli altri carcerati, e non si contano le continue vessazioni delle guardie e l’isolamento nella “Buca” (nient’altro che uno sgabuzzino minuscolo). Eppure il detenuto, che perfino nelle lettere si scrive con il suo numero di matricola, ha difficoltà a ricordare a sé stesso la vera natura di quella “prigione” e ha un crollo tale da essere rilasciato.

Questo appena raccontato potrebbe benissimo essere la trama di un film o una serie TV, invece tutto ciò è avvenuto realmente. Perché non era un vero carcere quello di Stanford, ma uno spazio all’interno dell’università di Stanford a Palo Alto, in California, adibito per funzionare come tale.

Philip Zimbardo

E il “sovrintendente” che poi ha deciso di rilasciare il “detenuto 8612”, altro non è che un professore di psicologia dell’Università di Stanford, che ha creato quello spazio, e reclutato volontariamente ventiquattro ragazzi universitari (senza alcun precedenti di disturbi psicologici o di reati). Ragazzi pagati giornalmente, e tutto per ricreare le situazioni di un reale carcere, e dare vita a un esperimento socio-psicologico.

Così Philip Zimbardo, il 15 agosto 1971 ha dato inizio all’esperimento più famoso della psicologia, e ha deciso di farlo per studiare inizialmente le reazioni dei detenuti e guardie in un carcere simulato, per poi trasformarsi (o meglio, degenerare) in uno studio su come ruoli e ambiente inducano le persone a trasformare completamente la propria personalità per aderire a quella degli stessi luoghi, piegandosi alle dinamiche di gruppo e di potere.

Sull’esperimento di Zimbardo hanno scritto saggi, lo si studia in psicologia, ci hanno perfino fatto dei film (due dal titolo The Experiment, uno del 2001 e l’altro del 2010), più uno più recente e fedele, del 2015, ovvero Effetto Lucifero (The Stanford Prison Experiment), basato sul saggio che Zimbardo scrisse sul tema (dal titolo, appunto, Effetto Lucifero).

Invece, sul tema della vita in carcere non si contano film e serie TV, da Orange Is The New Black a Prison Break fino a passare per la spagnola Vis a Vis, ma c’è una serie TV sul carcere che nel mondo seriale è passata quasi in sordina.

Oz

Oz, del 1997 diretta da Tony Fontana, è una serie che tratta anche di una sorta di “esperimento”, o meglio delle vicende all’interno un braccio sperimentale (Paradiso) di una prigione chiamata Oswald (abbreviata in Oz) un progetto nato dalla mente dell’idealista Tim McManus, per rieducare i detenuti.

La storia si svolge interamente all’interno del carcere, non si vedrà mai l’esterno (e quindi è impossibile capire in quale Stato degli USA si trovi la prigione). Sbarre di plexiglass (che danno effettiva l’idea di cavie in un laboratorio) sorveglianza costante, scacchi e giochi di carte come svago, ginnastica e tentativi di attività educative e culturali, certo tutto sembra fuorché un Paradiso (o la Città Smeraldo, nell’originale traduzione).

L’ambientazione è perennemente chiusa, quindi non vedremo mai la vita fuori da lì dell’ideatore del Paradiso o del direttore Leo Glynn, e tanto meno delle guardie di Oz, o negli gli altri bracci di Oz che non siano la mensa, la “Buca”, il braccio della morte (tranne che in alcune stagioni dove i detenuti vengono spostati in altro bracci e lì ne seguiamo le vicende).

Certo, paragonare l’esperimento di Zimbardo a quello rieducativo (a tratti utopistico) di Tim McManus, sulla base di questa premessa, è piuttosto azzardato. Ma entrambi gli ideatori hanno fallito nei loro intenti, se McManus ha tentato di portare un po’ di civiltà in un ambiente oppressivo come il carcere, il risultato dopo anni di violenze, è stato un attacco chimico che ha portato alla chiusura, dopo sei anni, del carcere, mentre Zimbardo ha dovuto terminare l’esperimento dopo sei giorni dal suo inizio, mentre la durata iniziale avrebbe dovuto essere di quattordici giorni.

Due prigioni diverse ma simili

Zimbardo ha dovuto affrontare una rivolta e crolli nervosi fra i suoi “detenuti”, e un “complesso di Dio”, che se non fosse stato per l’intervento della sua compagna avrebbe finito per logorare se stesso e le sue “cavie”, mentre Tim McManus, invece, in una rivolta è rimasto pure ferito, e alla fine si è rialzato è riuscito a sistemare le cose, a sopportare un licenziamento e un indurimento del carattere.

Sulla trasformazione di uomini “comuni”, sottoposti a vessazione, che si trasformano in aguzzini, ne è piena la storia della letteratura e del cinema, e per lo più è la genesi dei “supercattivi”, o solo persone normali, di solito tranquille e anonime, che appena “assaggiano” un briciolo di potere si trasformano completamente.

In Oz è il caso di Beecher, tranquillo padre di famiglia e rinomato avvocato, che a causa di un ubriacatura investe una ragazzina, e deve scontare quindici anni di carcere. Dopo esser stato stuprato, diventato uno schiavo sessuale di Schillinger, il capo degli Ariani, e dopo aver passato un periodo di abuso di droghe (dall’alcool alle droghe, un circolo vizioso a cui si aggiungerà pure il sesso) si trasforma completamente, sarà in prima linea nella rivolta della prima stagione e per tutte le restanti cercherà di farla pagare a Schillinger (fra i due sarà una scontro senza un reale vincitore, per poi terminare in una lotta che sfocerà in un finale catartico e dal sapore Shakespeariano).

Troverà anche l’amore, ma questo non basterà a cancellare ciò che si è reso conto esser capace di fare, in una società dove le normali regole del vivere sociale sono azzerate e conta solo la sopravvivenza, se sei debole soccombi e questo Beecher l’ha imparato a sue spese. Così come i secondini, vi è chi usa i detenuti come sfogo sessuale, chi cerca vendetta e chi, anche in questo caso, ha dei crolli nervosi che lo portano a raptus di follia anche all’esterno del carcere.

Nessuno di loro viene visto fuori dal carcere, quindi gli spettatori non avranno mai la possibilità di conoscerli se non nel loro ruolo, così come non sappiamo quasi nulla delle “guardie” dell’esperimento di Zimbardo. Perché ciò che eri fuori, le regole, la moralità che vige nel “mondo reale” non contano più in un carcere, che sia reale, televisivo, o fittizio, frutto di un esperimento.

Perché appena le guardie di Zimbardo indossano gli occhiali a specchio e brandiscono manganello, scompare la facciata del bravo ragazzo di buona famiglia e universitario, così come i secondini di Oz non appena escono dallo spogliatoio per iniziare il turno, con loro, lì a Oz o nello scantinato dell’università di Stanford, resta solo “la banalità del male”, il compiere un dovere che va oltre tutto ciò.

La banalità del male

In fondo, non sono molto diversi da un Adolf Eichmann o da chi premeva il bottone per mandare una scarica elettrica a un altro essere umano che urla e grida (anche se, ovviamente la scarica è fittizia e chi urla e un complice), perché tanto “mi hanno assicurato che non ci saranno ripercussioni” (come hanno fatto i candidati di un altro esperimento sociale, condotto da Stanley Milgram).

Sia Zimbardo che Tim McManus hanno fallito nei loro tentativi, perché dopotutto, la natura umana viene fuori sempre, e soprattutto in ambienti gerarchizzati e altamente oppressivi come il carcere che, come il manicomio, viene definito, in sociologia, istituzione totale. Il luoghi simili eliminare quella parte di sé che segue i bassi istinti e lotta per la sopravvivenza è impossibile, anzi è necessaria mantenerla viva, farla riemergere e scrollarsi di dosso decenni di buone maniere e regole socialmente approvare.

Non ricordi quanto giocavi a guardie e ladri, ai cowboy e gli indiani, quando volevi comprare il nuovo fucile per giocare alla guerra, quando ridevi con il gruppo di un compagno bullizzato, non ricordi quella violenza infantile senza freni? Violenza che veniva scaricata attraverso il gioco mentre da adulti viene canalizzati negli sport, negli stadi, durante le manifestazioni, riti religiosi, e purtroppo, in decenni passati, attraverso la guerra (e in tempi antichi attraverso la catarsi che scaturiva dal teatro greco, e oggi può essere considerato tale anche il cinema).

Poi ci illudiamo, una volta tornati a casa, che tutte le emozioni che sono venute fuori non esistano più, che siano stati dei momenti di sfogo e rilassamento, nient’altro, e non ci pensiamo più. Però sono sempre presenti, e da qualche parte, nascosti, attendono.

A cura di Lucrezia Maria Tangoni

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