Penny Dreadful: una recensione e una riflessione

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Prima di parlarvi dell’ormai concluso Penny Dreadful bisogna che faccia una premessa, senza la quale non si capirebbero molte questioni che girano intorno a questa ottima serie di Showtime (trasmessa interamente anche da Netflix). L’esigenza di affrontare temi preliminari alla recensione della serie nasce dal fatto che tale show ha un’origine, intesa artisticamente e non di produzione, ben più complessa di quella che può far immaginare il plot. Quando si parla di questo show agli amanti dei fumetti di tutto il mondo alla loro mente salterà sempre quel meraviglioso capolavoro che è la graphic novel La Lega degli Straordinari Gentlemen di Alan Moore. Proprio dal pluripremiato autore britannico parte la nostra necessaria premessa.

Alan Moore è un individuo poliedrico, geniale, sopra le righe ed estremamente restio a farsi coinvolgere dalla sua immagine pubblica. Tali caratteristiche si riversano nella sua figura di artista che lo rendono un autore di fumetti, un romanziere, un drammaturgo, un cantautore e, a suo dire, un mago. La sua forza narrativa è così grande che quando morirà —poiché, per parafrasare Totò, in questo mondo bisogna morire per farsi riconoscere qualcosa— verrà incoronato come uno degli artisti anglosassoni  più importanti di sempre. Per fortuna ad Alan Moore non importa nulla di quello che pensano gli altri. Non si scompose neppure quando, grazie a Watchmen, vinse il premio Hugo (unico romanzo grafico a riuscirci) e la suddetta opera fu inserita da Time tra i “100 migliori romanzi in lingua inglese dal 1923 a oggi” (vi rendete conto? non so se ci riuscite, ma per rendere l’idea vi dico che a fargli compagnia, a titolo d’esempio, ci sono Lolita, 1984, La fattoria degli animali, Infinite Jest, il giovane Holden, il grande Gatsby). Il lavoro nel mondo dei fumetti è stata la sua fortuna e in un certo senso la sua sfortuna, poiché lo ha chiuso in un mondo troppo stretto, ma che lui è riuscito a cucirselo addosso su misura travalicando i limiti che il genere può creare.

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L’approccio semplicistico che hanno molte persone verso il mondo dei fumetti coinvolge anche i grandi produttori di Hollywood. Quando ciò genera pessimi film sui supereroi improntati solo sull’azione (e ciò non è del tutto sbagliato, dato che la “spensieratezza” è una parte importante di questo mondo) è perdonabile, lo è decisamente meno quando ad essere snaturate sono opere sì fumettistiche ma di spessore ben più ampio. Tale snaturamento è riscontrabile in qualsiasi pellicola tratta dalle opere di Moore e la lista di queste pellicole è abbastanza ampia. Tralasciando i film su Swamp Thing (decente la prima ad opera di Wes Craven) e quello su Constantine, che furono il frutto di un pessimo contratto tra la DC e Swampfilms, il primo film tratto da una graphic novel di Moore è From Hell (2001) di Allen e Albert Hughes con protagonista Johnny Depp. Pur essendo un buon film non si avvicina neppure lontanamente alla complessità e alla grandezza dell’opera di Moore e Campbell sul caso di Jack lo Squartatore, scritta grazie ad una ricerca storica di mole impressionante, le cui libertà artistiche vengono spiegate minuziosamente dall’autore britannico (leggere per credere). Questo schema è presente in tutte le pellicole successive tratte dai lavori di Moore: sono dei film decenti ma completamente lontani dalle versioni cartacee. Watchmen (2009) e V for Vendetta (2005) verranno completamente rifiutate dal creatore che le riterrà opere indegne del lavoro enorme da lui compiuto insieme ai disegnatori Dave Gibbons e David Lloyd. Effettivamente, chi ha letto le opere cartacee si rende subito conto di come venga tradito lo spirito dei lavori. In Watchmen si perde completamente l’obiettivo principale del romanzo grafico, ovvero quello di analizzare lo spirito del XX secolo attraverso gli occhi di uomini che volevano cambiare il mondo e non ci sono riusciti; mentre per quanto riguarda V for Vendetta, la pellicola non riesce a trasportare efficacemente la riflessione politica di Moore che potrebbe tranquillamente confrontarsi con Hobbes, Locke e compagnia bella. Neppure due righe meritano di essere spese per l’imbarazzante trasposizione del 2003 di  Stephen Norrington della Lega degli straordinari Gentleman, ovvero La leggenda degli uomini straordinari, che purtroppo è stata l’ultima pellicola a cui ha partecipato quel galantuomo di sir Sean Connery (un addio non memorabile purtroppo).

E Penny Dreadful? bene, questa premessa serve proprio per valorizzare il primo punto di forza di questa serie, vale a dire non cercare di ricalcare l’opera originale. Il creatore John Logan (Il gladiatore, The aviator, Hugo Cabret, L’ultimo samurai, Sweeney Todd) consapevole degli insoddisfacenti lavori precedenti tratti dai lavori di Moore e pressato dalla concorrenza della Fox che aveva in cantiere un progetto simile, vira su un’idea più sicura e confeziona un prodotto che si ispira alla graphic novel di Moore ma non ne segue rigidamente la via. Infatti, Logan prende a piene mani dalla moda britannica dei penny dreadful, appunto, e dalla cultura vittoriana. Cosa sono, o meglio, cos’erano i penny dreadful? Sono “spaventi da un penny” ossia opuscoletti settimanali contenenti storie gotiche, macabre, paurose e antesignane del pulp; erano indirizzate alle classi medio basse inglesi del XIX secolo con lo scopo di intrattenere i lavoratori nel poco tempo libero a disposizione cercando di alleviarne le fatiche quotidiane e di allontanare le ombre che ormai minacciavano la società inglese sull’orlo dell’abisso, incapace di accettare i cambiamenti del tempo, spaventata dai problemi dell’impero e schiacciata dalla malsana vita dei centri urbani britannici. Pur essendo intrattenimento di bassissima qualità ebbero un successo grandioso, tanto da ispirare grandi scrittori vittoriani come Robert Louis Stevenson. Probabilmente il successo è stato coadiuvato anche dai non troppo velati riferimenti alla vita britannica del secolo, giacché l’epoca vittoriana (tanto lunga da poter dividerla in microperiodi) non fu un periodo facile per la gente comune, prima vittima di una società che stava collassando su se stessa e che farà i conti con il suo passato troppo tardi. La rivoluzione industriale aveva reso le città sporche e invivibili, e pur raggiungendo la massima espansione territoriale e progressi in molteplici campi, la Gran Bretagna imperiale stava per cedere il passo al mondo contemporaneo. Senza avere la presunzione di ricoprire un arco storico di quarant’anni, Penny Dreadful si concentra negli ultimi anni del regno della Regina Vittoria (regina con un immagine iconica ma  sovrano senza poteri effettivi) e fa dell’ ambientazione la sua musa ispiratrice e la sua fonte di storie. Con una ricostruzione in parte computerizzata e in parte rappresentata con scenografie di altissimo livello, le atmosfere vengono sfruttate felicemente dai sette registi diversi che dirigono la serie, che riescono, pur lavorando in modo diverso, ad ottenere un risultato lineare, aiutati anche dal soggetto ad opera dell’unico autore Logan. Il creatore, quindi, riesce abilmente a mescolare l’opera di Moore, l’epoca vittoriana e le storie dei penny dreadful condendoli con molti personaggi della mitologia britannica e di romanzi epocali (Dracula, Frankenstein, Dorian Gray, Dr. Jeckyll e Mr. Hyde). Queste atmosfere sono così importanti per lo show che le puntate meno efficaci sono quelle ambientate nel vecchio west, mentre quelle che omaggiano la leggenda delle streghe e ambientate nei boschi britannici riescono a reggere il pathos della Londra vittoriana.

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L’ambientazione è accompagnata da un cast stellare poiché obiettivo della serie non è tanto di raccontare una storia ma di raccontarla bene. Infatti, il rischio di impantanarsi tra le leggende, la storia di Moore, i fatti dell’epoca, la mitologia celtica è altissimo e per questo lo show cerca di affascinare lo spettatore con le ambientazioni, i personaggi e i dialoghi senza la pretesa di dover raccontare una storia che risulti ostinatamente originale. In questo senso la scelta del cast è oculata e non banale tendente a costruire i personaggi sulle caratteristiche degli attori che il più possibile possano ricordare i personaggi a cui s’ispirano senza copiarli ma semplicemente ricordarli. Ciò si nota soprattutto per quanto riguarda i protagonisti ispirati dalla Lega degli straordinari gentleman, mentre i personaggi tratti dalla mitologia e dalla letteratura classica sono costruiti in maniera simile agli originali ma infondendogli nuove sfaccettature sia fisiche che caratteriali.

Regina incontrastata dello show, anima e stella, è la meravigliosa Eva Green che veste i panni della fragile, forte, intelligente, colta, mistica, umana, angelica, demoniaca Vanessa Ives ispirata vagamente al personaggio Mina Murray dell’opera di Moore che a sua volta s’ispira all’omonimo personaggio del romanzo Dracula di Bram Stoker. La Green pone in essere un personaggio magnifico (che le è valsa numerose nominations inclusa quella al Golden Globe) in lotta con la sua fede in Dio indebolita da forze soprannaturali, sensi di colpa, esperienze di vita tremende e da una società malsana e maligna che schiaccia i suoi figli più indigenti in nome di un progresso che non porta benefici se non a chi già ne ha. Tutto lo show è costruito intorno a questo personaggio come se fosse il suo “sole” e la Green con il suo magnetismo riesce a dirigere le “danze” mantenendo ogni cosa in equilibrio. Coloro che accompagnano Eva Green nella storia riescono a valorizzare il lavoro fatto da quest’ultima completando un quadro che anche se avesse come soggetto la sola Vanessa Ives, come una menina di Diego Velasquez, potrebbe comunque ipnotizzare lo spettatore. Per questioni di anzianità il primo a dover essere citato è sicuramente Timothy Dalton (settant’anni e non sentirli) che veste i panni di sir Malcolm Murray, simbolo del movimento romantico che ardeva nei cuori dei poeti e romanzieri dell’epoca, avventuriero e temerario, insieme al suo fido amico e servitore Sembene (Danny Sapani), caccia belve in Africa ed esseri soprannaturali a Londra, in cerca della figlia rapita proprio da queste entità. Murray è ferito dalla perdita del figlio, di cui si porta il profondo senso di colpa, avvenuta in uno dei suoi lunghi viaggi. Il personaggio è decisamente ispirato ad Allan Quatermain, protagonista della graphic novel di Moore e protagonista del famoso romanzo di avventura Le miniere di Re Salomone di Haggard, portato sul grande schermo da Sean Connery. A differenza di quest’ultimo, Dalton porta nella serie un personaggio meno estroverso rispetto a quello di Connery (ma data la qualità del film, il paragone lascia il tempo che trova) e molto più oscuro. Forse l’interpretazione è un po’ rigida in  molti punti ma quando il copione richiede una profonda drammaticità Dalton riesce a donare al pubblico una delle scene più belle della serie (seconda stagione). La terza star del cast è Josh Hartnett che interpreta Ethan Chandler forse l’unico personaggio realmente al di fuori del fumetto e che trova più contatti con il personaggio ispirato a Tom Sawyer nella pellicola del 2003. Possiamo dire che è un mix tra Buffalo Bill e altri eroi del West, tutto condito da un oscuro segreto che monopolizzerà non di poco l’intera storyline. Devo dire che la sua interpretazione è davvero blanda e ordinaria, Hartnett non riesce a dare la giuste ombre ad un personaggio davvero ambiguo, tormentato ed oscuro. Per intenderci: Joaquin Phoenix avrebbe fatto di questo personaggio un’icona della tv, mentre Hartnett ne fa uscire un Ken (quello di Barbie) tormentato. Parlando di performances attoriali non proprio buone, vorrei spendere due parole per quella di Reeve Carney che interpreta Dorian Gray. Neppure Moore osò introdurre il personaggio di Wilde, per quanto calzante, nella sua opera, poiché è un profondo malinteso credere che il romanzo del dandy più famoso della storia possa costituire un semplice rappresentante del romanzo di genere. Gray è un personaggio che esula da dinamiche fantastiche, anzi rappresenta una amara visione dell’esistenza ed inserirlo con tale leggerezza in un contesto inappropriato lo rende un personaggio grottesco. La sua presenza è spiegabile, come quella del personaggio di Hartnett, solo per l’influenza del film del 2003. Inoltre l’interpretazione di Carney è inespressiva, talmente tanto da risultare fastidiosa. Per fortuna queste due anonime interpretazioni, oltre ad essere bilanciate da Eva Green e Timothy Dalton, vengono oscurate dagli altri attori della serie. Bravissimo Harry Treadaway nei panni del giovanissimo eroinomane (si fa davvero tantissimo) dottor Victor Frankenstein. Come il suo omonimo cartaceo (del romanzo, poiché non è presente né nel fumetto né nel film) vive spasmodicamente per la ricerca scientifica ossessionato nel cercare di rivitalizzare i tessuti morti e di sconfiggere la “nera signora”. Il dottore ci riuscirà ma non ne trarrà le gioie sperate, poiché la sua creatura più riuscita (interpretata da Rory Kinnear, di cui parleremo più avanti) lo rifiuterà e lo odierà per la sua presunzione di giocare con l’esistenza. La creatura riportata in vita lo costringe a creargli una moglie, ma anche qui le cose non andranno come auspicate, il primo mostro andrà via esasperato dalla sua condizione e dal rifiuto della nuova creatura, di cui però se ne innamorerà lo stesso dottore, creando così una storia tormentata e sanguinosa che donerà alla serie una sotto trama davvero toccante con dialoghi intelligenti e degni dei romanzi del movimento romantico inglese. Di conseguenza, da menzionare anche l’interpretazione di Billie Piper nei panni della creatura donna (Lily) creata dal dottore, che porta sullo schermo un personaggio con mille sfaccettature. Difatti il personaggio ci si presenta prima nelle vesti della bella prostituta Brona Croft, amante e amica del personaggio di Hartnett, donna dolce ma con un macigno sul cuore, che non vi rivelerò poiché vi rovinerei il personaggio. Ammalatasi di tisi, la povera Brona morirà e sarà, come già detto, riportata in vita dal dottor Frankenstein, ma la vita nuova e la vecchia si mescoleranno creando un personaggio a “due teste” che la Piper interpreta benissimo alternando la dolcezza di Brona alla sete di vendetta (contro gli uomini, intesi come maschi) di Lily. Altra interpretazione degna di nota è quella di Simon Russell Beale nei panni dell’eccentrico egittologo e conoscitore di idiomi Ferdinand Lyle. Questo personaggio, inventato esclusivamente per la serie, è il consulente del gruppo, ma la sua grandezza sta nella sua tormentata omosessualità —tema ricorrente nella serie introdotto dalla bisessualità esplicita di Dorian Gray e dal suo amore per il transgender Angelique— pur essendo sposato per non creare scandalo nella benpensante società dell’epoca. Egli è palesemente fiero di ciò che è ed alcune scene drammatiche vengono rese potentissime dalla recitazione di Beale, che, credetemi, smuove le corde emotive di tutti. Un eccezionale attore, chapeau. 

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Infine buone le performances di Helen McCrory (Narcissa Malfoy in Harry Potter), Patti LuPone (attrice di teatro e apprezzatissima in numerosi Musical) e Christian Camargo (Rudy Cooper di Dexter) che interpretano tre personaggi che compaiono solo nella seconda (la prima) e terza stagione (gli altri due). Per onor del vero, senza il rischio di creare spoiler, Patti LuPone interpreta anche un altro ruolo nella seconda stagione, ma non voglio dire di più.

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Ora vorrei dedicare qualche riga in più all’attore che, a mio parere, ha regalato alla serie un’interpretazione grandiosa, potente, che dona alla serie una prova da maestro vera e propria, che con la sua bellezza emotiva lo ha fatto entrare nell’olimpo dei miei personaggi televisivi preferiti e a cui ripeterei la famosa frase “the winner is…” ogni volta che lo vedo. Parlo di Rory Kinnear che interpreta il mostro ribelle Frankenstein, e che a chiunque mi chiedesse di rispondere a secco perché Penny Dreadful va guardato risponderei scandendo il suo nome più e più volte. Scusate l’entusiasmo ma davvero le emozioni che mi ha regalato quest’uomo sono tra quelle donatemi dal mondo della tv e del cinema a cui sono più affezionato. La caratterizzazione del personaggio è davvero perfetta, tanto da poter rientrare nel novero dei grandi attori che hanno interpretato il mostro creato dalla penna di Mary Shelley. Già il nome che il mostro sceglie per sé ovvero quello del grande poeta inglese John Clare (artista tormentato e sensibile) è indice di bellezza e profondità, e attraverso questo nome egli diventa l’osservatore, il filosofo, il giudice degli avvenimenti della serie. Non si può aggiungere altro a parole e quindi vi ripeto, nel caso che dopo quest’articolo siate ancora in dubbio nel vedere la serie o meno, Penny Dreadful va visto soprattutto per Rory Kinnear. È pura poesia. Pura come la sua interpretazione, che chiude la serie, di Ode all’immortalità di William Wordsworth. “[…] Grazie al cuore umano con cui viviamo Grazia alla sua tenerezza, le sue gioie, e paure Per me il più significativo dei fiori che può sbocciare È un pensiero che giace troppo in profondità per le lacrime”. Rullo di tamburi. Sipario.

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E proprio la poesia è una delle protagoniste della serie che è molto più colta di quanto ci si aspetti (strizzando l’occhio a Moore) ed è una piacevole sorpresa ritrovarsi più istruiti dopo averla vista. Tutto lo show è un inno alla poesia inglese dell’epoca, si cita William Blake, grande fonte d’ispirazione per Alan Moore (e per tutti gli uomini sognatori), più volte citato lo stesso John Clare come ad esempio quando viene recitata da Rory Kinnear a Vanessa Ives I am: “[…] E dormire come dolcemente dormivo nella mia infanzia, non turbando né turbato, dove io mi distendo, sotto l’erba, sotto la volta del cielo”. Addirittura un’intera puntata si svolge nel giorno della morte  del poeta Alfred Tennyson (6 ottobre 1892), vero e proprio eroe nazionale inglese e poeta restio a lasciar andare il sogno romantico dei suoi predecessori. In questo caso i versi sono tratti dal poema Maud e recitati da veramente un’immensa Eva Green. Non posso esentarmi da condividerla con voi: ” Pulsate, stelle felici, a tempo con ciò che è sotto di voi…”

Inoltre la serie  affronta, sfuggendo al troppo stretto contesto gotic/fantasy, tutti gli argomenti forti che l’epoca vittoriana offre. Si parla della tisi e delle milioni di vittime che ha mietuto, delle condizioni indigenti della maggioranza della popolazione, della invivibilità dei centri urbani, degli orrori che accadevano all’interno delle mura dei manicomi, della stucchevole società benpensante dell’epoca, della xenofobia. Soprattutto quest’ultima viene approfondita più volte da vari punti di vista, ad esempio John Clare/Frankenstein è proprio in questo contesto concettuale che recita la poesia I am a Vanessa Ives, anch’essa vittima del dolore che porta il rifiuto degli altri, in una suggestiva caverna/sotteraneo adibita a centro per i poveri. Per di più la questione xenofobia viene affrontata, come detto, dalla tematica della omosessualità. Va aggiunto, a quanto detto prima, che la transgender Angelique, interpretata dall’italiano Emiliano Coltorti, regala momenti intensi legati al tema. Si può dire che comunque la banalità su tutti questi argomenti è evitata come la peste.

Infine, più che la fotografia, che è ottima, soprattutto nella scena del ballo e principalmente nelle scene in casa Gray, ma soffre i necessari usi del computer per ricostruire la Londra vittoriana, è la colonna sonora a donare ancor di più bellezza alla serie. Abel Korzeniowski (Animali Notturni) con le sue musiche ispirate al tempo storico di riferimento e alle atmosfere gotiche e oscure confeziona una veste perfetta alla serie, vincendo meritatamente il premio BAFTA per la miglior colonna sonora. Le musiche hanno avuto talmente successo che sono stati prodotti tre compilation che raccolgono la soundtrack di tutte e tre le stagioni con ben settantotto tracce.

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Spero davvero di avervi convinto ad affrontare questa ottima serie, che pur avendo qualche difetto, come ovvio che sia, riesce davvero a distinguersi per qualità e intelligenza. Pur essendo stata un po’ bistrattata nel periodo di messa in onda, sono sicuro che in futuro la sua fama crescerà riuscendo a liberarsi anche dall’etichetta “serie di genere”. Se ad un certo punto trovate che la serie vi stia stancando, può accadere nella seconda stagione come spesso accade nei capitoli di mezzo, non vi fermate! verrete ricompensati. Ritornando poi alla premessa, credo che davvero sia stato evitato il confronto diretto con Alan Moore molto efficacemente, prendendo dall’autore britannico non la storia in sé, ma ciò che fa grande queste storie mooroniane, ossia la minuziosità dei dettagli, la cultura e la psicologia dei personaggi. Spero davvero che il vecchio caro mago Moore l’abbia vista e apprezzata.

Non mi resta che salutarvi e  lasciarvi con qualcosa che rappresenti benissimo questo show, ovvero un travolgente e suggestivo valzer.