The Mastermind: intervista con la regista Kelly Reichardt

Mubi porta al cinema e in streaming The Mastermind, un film che rivede il concetto del genere “colpo grosso”, per raccontare l’America degli anni ’70

the mastermind
Condividi l'articolo

A cura di Monica Rovati Trombin

Due chiacchiere con Kelly Reichardt, regista di The Mastermind

Seguiteci sempre anche su LaScimmiaPensa e iscrivetevi al nostro canale WhatsApp

Presentato in anteprima mondiale al Festival di Cannes, scritto e diretto da Kelly Reichardt e prodotto da FilmScience in collaborazione con Mubi, The Mastermind si propone come una rilettura intensa del genere “colpo grosso”, con un cast di prim’ordine guidato da Josh O’Connor e affiancato da Alana Haim, Gaby Hoffmann, Bill Camp e Hope Davis.

Il film racconta una storia ambientata tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 in una periferia del Massachusetts e segue la storia di James Blaine Mooney, un uomo apparentemente ordinario e padre di famiglia disoccupato, che decide di organizzare una rapina d’arte trasformandosi improvvisamente in un ladro dilettante.

Il furto viene mostrato subito, già nei primi minuti del film, per poi concentrare la narrazione sulle conseguenze del gesto, raccontando pian piano tutte le crepe nella vita di Mooney.

Seguendo questo schema la regista riesce a costruire una tensione che si innesca non attraverso l’azione, bensì tramite silenzi e sguardi, oltre alla consapevolezza crescente di una vita che sfugge al controllo. Il risultato è una meditazione proprio sull’illusione del controllo, ma anche sul peso invisibile delle scelte di una persona, esplorando così temi come l’ambizione, la vulnerabilità e le tensioni della borghesia americana dell’epoca.

Il protagonista prova in tutti i modi ad essere all’altezza delle aspettative della realtà borghese in cui vive e della sua famiglia, ma dietro ad un futuro già scritto di normalità e noiosa quotidianità, Mooney sceglie invece di seguire un desiderio incontrollato del rischio, un istinto criminale nascosto nel suo subconscio. Questa interessante sinergia tra buono e cattivo, ordinario e assurdo, fa da slancio per osservare tensioni familiari, sogni infranti e legami fragili che ben presto iniziano a sgretolarsi davanti alla realtà, per arrivare ad un’inevitabile sconfitta personale e della società stessa.

In occasione dell’uscita al cinema di The Mastermind, avvenuta lo scorso 30 ottobre, e alla sua prossima visione in streaming, ovviamente su Mubi, abbiamo fatto due chiacchiere con la regista Kelly Reichardt, che ci ha raccontato tutti i segreti dietro il suo nuovo progetto. Non solo ci ha svelato cosa l’ha spinta a scrivere questo film, ma ha anche rivelato il lavoro svolto per ricreare fedelmente il periodo degli anni ’70 e perché il personaggio di Josh O’Connor è una sorta di forma di ribellione moderna.

the mastermind

Qual è stata l’ispirazione per il film The Mastermind? E soprattutto ci puoi parlare del design dei costumi e della musica usati nel film: che tipo di ricerca storica avete fatto per ricreare l’epoca?

Kelly Reichardt: Che bella domanda!

L’idea è nata quando ho trovato un articolo che parlava di alcuni adolescenti che si erano ritrovati coinvolti nel 1972 in una rapina a Worcester, una cittadina nel Massachusetts.

Avevo già una discreta collezione di articoli su furti d’arte, che avevo raccolto per circa un decennio e questo fatto mi ha incuriosita, tanto da farmi poi mettere le basi di questo film.
Per quanto riguarda il design dei costumi, è tutto merito di Amy Roth. Con lei abbiamo cercato di ambientare il film specificamente nell’autunno del 1970. Quello è il periodo in cui l’America entra in Cambogia, ci sono le sparatorie a Kent State… quindi succedevano molte cose. È come il “post-sbornia” degli anni ’60 e la disillusione verso quell’idea utopica, che finiva in violenza.

Abbiamo cercato di essere molto precisi riguardo alla Framingham borghese in Massachusetts, per rendere tutto il più specifico possibile, così da non far sembrare il film un generico anni ’60 o ’70. Oppure come dicono i miei studenti, “tutta quella roba degli anni ’60 e ’70 buttata in un unico calderone” (ride).

Infatti per costumi, scenografie e ricerca delle location abbiamo sempre cercato di evitate la genericità, cercando di essere il più specifici possibile per le situazioni che volevo raccontare: per esempio “cosa ci sarebbe in questa casa” o “perché questo quartiere”, o ancora “perché proprio questo”… insomma tutti dettagli molto curati.

Anche il sound mixing ha avuto un ruolo fondamentale. Oggi infatti ogni minimo suono di una persona viene percepito: banalmente si sente persino quando qualcuno si tocca gli occhiali e questo non era affatto comune nei film degli anni ’70. Abbiamo quindi cercato di emulare il periodo, usando tecniche di filmmaking e di registrazione audio tipiche di quegli anni. Infatti tutti i suoni sono stati registrati in mono, come anche tutta la musica registrata da Rob Mazurek, che ha usato strumenti dell’epoca e le attrezzature originali.

Dopo l’ottimismo degli anni ’60 e ’70, nel film ci troviamo nella piena epoca della Guerra del Vietnam e delle numerose proteste. In che modo avete cercato di mescolare e rappresentare lo smarrimento personale del protagonista e allo stesso tempo l’atmosfera generale di un mondo e di una generazione che cambiano?

Kelly Reichardt: Ho cercato di concentrarmi sul mio personaggio, perché non volevo fare un film politico e quindi di mostrare che lui è un ragazzo con molti vantaggi, che si ribella alla sua condizione borghese ma allo stesso tempo ne approfitta inconsciamente ad ogni occasione.

Quindi sì ho raccontato gli aspetti politici ma li ho lasciati un pò ai margini della vita del protagonista, come se fossero nella sua visione periferica. Questo in un certo senso lo consuma, perché ti chiedi: puoi vivere separato dal tempo in cui vivi? Questo era un po’ il concetto alla base… come affrontare la politica senza rendere il film esplicitamente politico.

5The Mastermind Still 08 ©2025 Mastermind Movie Inc

Ed ammetto che è stato complicato, perché abbiamo iniziato a girare un anno fa e abbiamo continuato durante le elezioni. Cercavamo di rappresentare un periodo molto polarizzato: l’America che bombarda all’estero un presidente maniacale e allo stesso tempo “i bei vecchi tempi”.

Arriva un momento in cui devi concentrarti sulla famiglia, sul protagonista e sulla città, e sperare che, in seguito, il messaggio arrivi allo spettatore. Ovviamente pensi anche a ciò che succede in sottofondo, in televisione o alla radio, e quanto spostare queste informazioni dal fondo della scena al centro dell’azione, evitando di assumere una visione dall’alto e distaccata.

Il personaggio di Josh O’Connor viene rappresentato come un anti-eroe e allo stesso tempo come una brava persona. Per questo motivo la rapina al museo sembra più un atto personale disperato piuttosto che un piano magistrale. Questa visione è un modo per mostrare una forma di ribellione dei nostri giorni?

Kelly Reichardt:
Beh, penso che per natura probabilmente tutto ciò che faccio sia una forma di ribellione, ma io sono semplicemente scontrosa (ride).
A livello più ampio però, c’è un senso di perdita condiviso: molte cose sembrano essere decise senza che noi abbiamo voce in capitolo. Mi piacerebbe poter andare all’ufficio postale a Roma, spedire qualcosa e non avere grandi etichette sopra, o ricevere una lettera con francobolli di Roma… sarebbe meraviglioso.

Oppure viaggiare in America, passare da uno stato all’altro e trovare la radio locale successiva, invece di avere un’unica stazione radio per tutto il paese. Ci sono così tanti dettagli della vita quotidiana, come il cibo o le piccole esperienze, che vengono completamente soffocati dal consumismo. Fin dal mio primo film questa è la sensazione principale che provo: votiamo per i nostri politici, ma nel frattempo grandi corporazioni farmaceutiche e milionarie detengono tutto il potere decisionale.

Tornando alla questione del film, penso sempre a come il sistema influenza una persona e in quest’ottica Josh O’Connor è il primo personaggio che creo che abbia dei privilegi, ma che allo stesso tempo non vuole stare nello spazio che il sistema gli riserva. Quindi c’è una grande insoddisfazione intorno a lui, non vuole sembrare ingrato per le cose belle della vita, ma… vorrebbe cambiare e seguire i suoi veri desideri senza seguire uno schema già prestabilito. Questa è la sensazione che prova.

The Mastermind, il Trailer

Che ne pensate? Avete visto The Mastermind?