A cura di Beatrice Marcotti
Black Rabbit: la Recensione
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Ecco la nostra recensione di Black Rabbit, miniserie Netflix con Jude Law e Jason Bateman
A cura di Beatrice Marcotti
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Con Black Rabbit, Netflix firma una miniserie che si muove tra crime e dramma familiare, ma che in realtà affonda le radici in un tema ancora più cupo:una tragedia intima, ossessiva e oscura. Jude Law e Jason Bateman danno corpo e voce ai fratelli Friedken, due uomini divorati dalle proprie scelte e dipendenti l’uno dall’altro. La tensione criminale si unisce al melodramma familiare ricordando, a tratti, The Bear e Ozark ma focalizzandosi su un aspetto drammatico che ci porta a domandarci: cosa saremmo disposti a fare pur di non lasciare andare chi amiamo?
Ricordi, segreti, misteri
La serie si apre con una rapina che crea tensione e senso di attesa interrompendosi bruscamente, ma creando un gancio narrativo che sarà vera forza della serie. Dopo l’incipit adrenalinico, Black Rabbit non corre: si prende cinque episodi per farci conoscere i protagonisti smontando e rimontando la stessa vicenda da angolazioni diverse fino alla sesta puntata, quando la storia si ribalta e sono i personaggi stessi, uno alla volta, a guidarci. Questo gioco di prospettive non è sempre perfetto, a volte appare artificioso, ma riesce comunque a costruire tensione attorno a una scena che conosciamo già dall’inizio e che, proprio per questo, vogliamo comprendere a pieno. Una scelta rischiosa, ma efficace poiché ci restituisce uno sguardo più obiettivo sugli eventi modificando la narrazione filtrata solo da Jake e Vince.
Dal settimo episodio riprendiamo da dove avevamo iniziato fino ad arrivare al finale (prevedibile?) nell’ultima puntata.
Storia di una dipendenza affettiva
Black Rabbit non si accontenta di un classico dramma familiare. Jake (Bateman) è vero motore ossessivo della storia. Vive di adrenalina, incapace di dire “no” a ciò che desidera: il locale Black Rabbit, tolto al fratello; la fidanzata del migliore amico; un nuovo progetto imprenditoriale. La sua è una dipendenza dall’adrenalina, dal potere, dall’illusione di avere sempre il controllo. Tuttavia, ogni personaggio ha il suo tallone d’Achille e, il suo, è Vince.
Lui, al contrario, rappresenta l’uomo del fallimento permanente: vive nel rimorso, nel peso di un passato che lo condanna a villain della trama della sua vita. La sua confessione a Jake è il punto di non ritorno (uccise il padre da piccolo): un momento in cui si ribaltando improvvisamente i ruoli di vittima e carnefice. Vince non cerca redenzione, vuole solo smettere di correre. Liberazione e auto-condanna, l’ultimo sacrificio per amore verso suo fratello.
Se Jake rappresenta l’ambizione cieca e Vince la colpa insopportabile, Black Rabbit diventa il racconto di una dipendenza reciproca. Nella serie non mancano alcol, droga, sesso eppure a distruggere veramente i protagonisti non sarà nulla di tutto questo, ma il bisogno ossessivo l’uno dell’altro.
Lo specchio della regia: distanza fisica, peso emotivo
L’uso dei long shot, con i personaggi ripresi da lontano dentro una macchina o su un ponte, non è casuale: crea distanza, suggerisce la solitudine anche nei momenti di confronto. I dialoghi sono spesso interrotti da vuoti visivi o pause prolungate rendendo palpabile il peso di ciò che non viene detto ma facilmente percepibile dallo spettatore.
Le sequenze nel ristorante alternano frenesia caotica e lentezza compassata, come a riflettere la doppia anima della serie: adrenalina criminale e tragedia intima. Non sempre il ritmo funziona, ma la mano registica riesce a restituire un tono perlomeno coerente e sempre cupo.
Una storia, due personaggi
Il cast di Black Rabbit regge tutto sulle spalle dei due protagonisti, costruisce un Jake magnetico e odioso, affascinante e repellente allo stesso tempo: un personaggio che richiama certi suoi ruoli più ambigui (The Young Pope, Closer), ma con un’ambizione più autodistruttiva. Bateman, invece, dà a Vince un volto stanco, fragile, segnato dalla colpa: non troppo distante dal Marty Byrde di Ozark, ma qui più umano, vulnerabile e meno capace di tenere le redini del caos.
Gli altri personaggi restano in ombra, e quando trovano spazio (episodio 6) sembrano più funzionali al racconto che davvero tridimensionali. Una scelta coerente con la centralità del duo, ma che lascia il resto del mondo narrativo sfuocato.
Lieto fine o scelta finale?
Il destino dei fratelli Friedken si consuma in un epilogo amaro. Vince, stanco di distruggere e incapace di perdonarsi, sceglie di confessare e di chiudere i conti con un gesto estremo: la morte come unica forma di liberazione, in un richiamo circolare a un passato segnato da un “gesto mancato”. Jake, al contrario, perde tutto: il fratello, l’amore, l’amicizia, il locale. La serie chiude con un “fresh start” apparente, fatto di leggerezza, musica felice e arresti che sembrano riequilibrare la giustizia. Lo spettatore però resta con il dubbio: davvero senza Vince tutto trova un equilibrio? O è solo l’illusione che togliendo il capro espiatorio il sistema regga?
Il finale di Black Rabbit può sembrare prevedibile, ma funziona perché chiude dove deve: non sulla rapina, non sul ristorante, ma sul legame tra due fratelli che si sono scelti fino alla fine.
Conclusione
Non tutto funziona. La scrittura a volte si perde in sottotrame secondarie inutili, i dialoghi indulgono in un tono a tratti forzatamente cupo e l’originalità della struttura narrativa rischia di sembrare un esercizio di stile più che una reale necessità. Nonostante questo, anche nei suoi inciampi, la serie mantiene una coerenza emotiva che funziona.
Black Rabbit non è una serie perfetta, non è un noir da due stelle, ma un crime drammatico che funziona proprio perché mette al centro il rapporto più universale di tutti: quello fraterno, tossico, irresistibile, inevitabile. Tutto il resto è, e deve essere, solo contorno. Law e Bateman sostengono il racconto con interpretazioni magnetiche, capaci di rendere credibile anche la parte più fragile della scrittura.
Alla fine, ciò che resta non è il ristorante, non sono i debiti, non è nemmeno la rapina che apre e chiude il cerchio narrativo. Resta un legame tossico, distruttivo, reale. Una tragedia intima che conferma come, a volte, la famiglia non è solo quella in cui si nasce, ma quella che si sceglie.
Che ne pensate? Avete già visto Black Rabbit?