Portobello: la vera storia del caso Enzo Tortora dietro alla serie di Marco Bellocchio

Tortora
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Enzo Tortora, il popolare presentatore di Portobello, venne accusato nel 1983 di associazione mafiosa da un pentito: questo rovinò completamente la sua carriera e portò a uno dei casi di ingiustizia più famosi nella storia italiana

Nel 1983 Enzo Tortora, celebre e amatissimo conduttore televisivo diventato beniamino di tutti con la trasmissione di grande successo Portobello, venne accusato di associazione camorristica dal pentito Giovanni Pandico, direttamente da dietro le sbarre. Il conduttore venne quindi arrestato, processato e condannato a dieci anni di prigione.

Uno scandalo incredibile che divise il paese, perché nessuno si poteva immaginare che un volto tanto noto della televisione potesse essere in combutta con una associazione criminale come la Camorra. Eppure, diversi altri pentiti oltre a Pandico continuavano a fare il suo nome, per quanto si ritenesse che ci potesse essere confusione con un altro criminale che portava il suo stesso cognome.

Eppure era difficile sbagliarsi, perché sarebbe un po’ come muovere oggi accuse simili ad Amadeus o a Gerry Scotti. In ogni caso Tortora venne tenuto in carcere per sette mesi e, neanche a dirlo, la sua carriera, la sua reputazione e la sua professione ne furono completamente rovinati.

Uscì di prigione nel 1984, quando il Partito Radicale si offrì provvidenzialmente di candidare Tortora come europarlamentare, candidatura che ottenne subito un grande sostegno popolare: per una gran parte gli italiani erano convinti della sua innocenza. Infine, nel 1986 la corte di appello di Napoli lo scagionò completamente dalle accuse, con conferma in cassazione l’anno successivo.

Nel febbraio del 1987 riprese la conduzione di Portobello, esordendo con la famosa frase: “Dunque, dove eravamo rimasti?”. La storia non ha però un lieto fine, perché pochi mesi dopo Tortora sviluppò un tumore polmonare che lo portò alla morte, a soli 59 anni, il 18 maggio 1988. Un caso tragico che rimane ancora una macchia indelebile nella storia giudiziaria italiana.

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