Dalle pagine dei libri scritti da Thomas Harris al grande schermo, il personaggio di Hannibal ha contribuito a scrivere la storia del cinema, a suo modo. Indimenticabile l’interpretazione che Anthony Hopkins offrì al mondo, un attore perfettamente nella parte, forse l’emblema della locuzione “physique du role“, per interpretare il dotto Lecter. Diretto da maestri come Jonathan Demme, Ridley Scott e Michael Mann, la figura poliedrica e camaleontica di Hannibal si è sempre caratterizzata per il suo essere affascinante e temibile al tempo stesso. Nel nostro libro dedicato ai dieci cattivi più cattivi della storia del cinema, gli è stato dedicato un capitolo: impossibile tenerlo fuori da questa classifica di supervillain.
Dal grande schermo al piccolo, il passo alle volte è breve. Era il 2013 quando Bryan Fuller, dopo aver prodotto serie come Star Trek: Voyager e la sottovalutata Heroes, decise di rielaborare la storia di Hannibal e a suo modo anche il personaggio audiovisivo, restituendo un ritratto molto più fedele al libro per certi aspetti. La storia infatti non si presenta “in medias res“, come accaduto in precedenza con i vari film dive già sappiamo che Hannibal Lecter è un criminale, un omicida con il vizio di mangiarsi le vittime.
Quindi è inevitabile chiedersi come sia possibile fare una serie TV su un personaggio di cui conosciamo già tutto. Fuller confezionò la risposta in tre stagioni, aiutato da interpretazioni sontuose come quella di Mads Mikkelsen, che offre un Hannibal nuovo, simile ma diverso, fatto di coerenze e contraddizioni, esattamente come tutta la serie dedicata ad Hannibal.
In maniera profondamente brillante, Bryan Fuller propone la classica struttura episodica di una qualsiasi serie da prime time: una storia principale ed episodi filler, ossia riempitivi, alla sola apparenza iniziale. Infatti ogni singolo serial killer parallelo che l’FBI dovrà scovare, ha un forte nesso con la storia principale, che coinvolge proprio lo stesso Hannibal. Questa serie offre spunti di scrittura magistrali, grazie anche alla coralità dei suoi protagonisti, su tutti Will Graham e proprio Hannibal Lecter. Il primo, un docente della scuola FBI, il secondo, uno psichiatra abbastanza rinomato nel suo campo.
Sullo sfondo, decisamente invadente, troviamo Jack Crawford, agente capo della sezione di scienze comportamentali che usa un particolare dono di Will: quello dell’empatia. Il suo spettro autistico infatti gli permette di ricostruire gli eventi di un crimine brutale. Ovviamente, stante la sua condizione, le sedute con uno psichiatra sono quantomai necessarie. Ecco quindi che la regia di ogni episodio offre un nuovo primo spunto, che al tempo stesso è anche un qualcosa di profondamente nuovo. Ogni omicidio violento verrà mostrato in tutta la sua efferatezza ma compiuto dal protagonista che antagonista non è. Questa sua immedesimazione porterà anche noi spettatori a empatizzare con lui, con la sua sofferenza, fino però a farci dubitare di noi stessi.
L’ambiguità è infatti una delle caratteristiche principali dell’Hannibal-personaggio, e ovviamente l’enigmaticità è un pilastro nella serie. Pronto a offrire il suo aiuto, sapendo che dietro di lui si cela una delle più grandi malvagità dell’essere umano. Quel suo essere narcisista, quel suo voler circondarsi di ogni bellezza, di sfidare ogni tabù, di non avere alcun limite. Un’esteta della violenza, che vive di pure sublimazioni nell’accezione più kantiana del termine. La serie infatti ci porta davanti a omicidi tanto terribili quanto per l’appunto sublimi, dove quelle sensazioni di sgomento e ammirazione prevarranno su ogni spettatore (almeno quelli non troppo facilmente impressionabili). La ferocia dunque assume una caratteristica del tutto diversa, forse mai vista prima d’ora nel mondo audiovisivo mainstream.
L’impatto visivo è uno dei tantissimi pregi di Hannibal. Gli altri sono tutti da scoprire, anche con un rewatch, grazie alla sua scrittura che pone l’accento su un’evoluzione dei personaggi di tutto rispetto. Le immagini, oscure e bellissime, si sposano appieno tanto con gli eventi quanto con i protagonisti. Il contrasto vige sovrano, lo scontro tra grandi menti agli antipodi, caratterizzate da una certa misantropia messa in scena in ogni sua sfaccettatura possibile. Il bene e il male non vengono messi in luce nel classico fare manicheo. C’è sempre qualcosa che ostacola il nostro giudizio verso Hannibal.
Anche lo spettatore diventerà inevitabilmente vittima del tetro fascino di Hannibal, nonostante le sue indicibili gesta. Bryan Fuller infatti riesce a pensare ad una serie pressoché perfetta in termini di scrittura dei personaggi. Basti pensare che noi tutti, premendo play, già sapremo a cosa andremo incontro. Siamo infatti su un gradino più alto, quasi al pari del narratore, per usare una terminologia propria della letteratura. A differenza dei protagonisti, noi conosciamo già Hannibal, sappiamo della sua follia cannibale. Eppure, non mancheranno i colpi di scena, quelli che fanno restare a bocca aperta, ben lontani dall’esser banali o prevedibili.
In questo senso, avremo due opportunità: quella di farci cullare dalle manipolazioni di Hannibal o quello di poter assimilare i suoi gesti, i suoi malevoli inganni. Hannibal, che ne sa una più del diavolo forse perché è lui il diavolo in persona. Hannibal che sovente aiuterà sul piano personale i suoi colleghi e non (o forse no?). Hannibal che costruirà un rapporto dalla fortissima carica omoerotica con Will, come ogni relazione malsana e tossica che quasi ognuno di noi ha affrontato nella sua vita.
Perché la serie di Hannibal non è solo un mero thriller dalle forti sfumature d’horror. È anche una serie sui condizionamenti umani, sulle dipendenze, sulla necessità di lasciar andare quella persona che agisce come la kryptonite per Superman e che nonostante tutto, non lasciamo mai andar via. Come scritto prima, l’ambiguità è la parola chiave di questa serie. Le sue ambivalenze, i suoi momenti dove tutto sembra finire inevitabilmente, dove ogni volta che tutto sembra capitolare, come un’ancora di salvataggio, ci sarà lui, Hannibal, che lo farà sempre per un suo tornaconto.
Amore e morte, concetti agli antipodi tra loro, che si incontrano e si scontrano, nelle loro forme più pure e primordiali. Dai cadaveri rinvenuti, emblema di morte, accatastati con cura e precisione, dalla cucina di interiora umane ma offerte come piatti della più pregiata cucina francese. Ad accompagnare, la lirica e la musica classica, in un connubio con le immagini violente che non vi farà mai staccare gli occhi dallo schermo, complice anche le interpretazioni magistrali dei due protagonisti.
Pur avendo un cast completamente all’altezza, inclusi i personaggi secondari, il tema principale di Hannibal si sviluppa e viene eviscerato proprio grazie a Mads Mikkelsen, la cui bravura di certo non fa notizia, e Hugh Dancy, che offre un ruolo drammatico di elevatissima caratura. Famoso per romcom di rivedibile qualità, Dancy restituisce appieno la sofferenza che porta con sé ogni volta che si presenta su una scena del crimine, così come ogni volta che ha un colloquio con il suo analista Hannibal Lecter.
In questo senso, il gioco manipolatorio fatto di gioie e sofferenza, restituirà costantemente sensazioni di disagio interiore difficile da scacciar via ma che comunque vorrete tenere stretto a voi. Ogni gesto sarà accompagnato da quel quid di bellezza che vi costringerà a guardare, a sottostare a quel gioco mentale malato che ogni narcisista offre alle sue vittime. Perché amare può significare anche morire. E alle volte, anche essere mangiati. In fin dei conti, diceva Feuerbach che siamo ciò che mangiamo. E Hannibal questo lo sa molto bene, al punto da sfumarlo con un buon vino o un brandy di quaità.