Robert Redford e il talento al servizio del prossimo
Quando si pensa a Robert Redford, si dà sempre la precedenza al suo volto da divo ed ai personaggi iconici da lui interpretati. Scrittori, cowboy, direttore di penitenziario, professori e chi più ne ha e più ne metta. Tanto diversi quanto accomunati da due comuni denominatori: la sensibilità e la responsabilità . Concetti e doveri necessari tanto ieri quanto, a maggior ragione, oggi, e portati avanti essendo sempre e comunque se stesso. Nella vita come nella finzione cinematografica.
In occasione del suo ottantanovesimo compleanno, è doveroso citare anche non solo il Robert Redford davanti alla macchina da presa, ma anche quello che è stato dall’altro lato, ovvero dietro la stessa. Non ha costruito una filmografia stracolma di capolavori e/o poliedrica come i suoi storici maestri della Nuova Hollywood (Sydney Pollack, Alan Pakula e Arthur Penn) ma di sicuro una filmografia coerente, intima e profondamente americana – e per questo anche superficialmente osteggiata-
dove la forma non è mai fine a stessa ma al servizio della sostanza, la regia svolge un strumento etico e morale prima che estetico, e i rapporti tra singolo individuo/società e coscienza singola e responsabilità collettiva sono portati avanti da uomini e donne giovani, spesso dotati di talenti nascosti, attraversati dal dubbio e dall’ambivalenza morale. Ma andiamo con ordine.
Gente Comune (1980)
Timothy Hutton in Gente Comune ( 1980); Credits: IMDB.
Il debutto di Robert Redford come regista avviene nel 1980 con Gente Comune, tratto dal romanzo Gente senza storia di Judith Guest, uscito quattro anni prima, e rende evidente di come non ci sia differenza tra l’uomo privato e l’autore cinematografico. In questo dramma familiare tanto minimalista quanto universale, Robert Redford racconta il percorso di superamento del senso di colpa e dell’ accettazione della morte del fratello del protagonista ( Conrad Jarrett, interpretato in modo sublime da Timothy Hutton), all’interno di un contesto familiare votato alla salvaguardia delle apparenze ed al silenzio emotivo.
Nell’osservare le dinamiche del trio familiare (i coniugi Jarrett sono interpretati magistralmente da Donald Sutherland e Mary Tyler Moore), Robert Redford elimina ogni possibile provocazione e virtuosismo registico a vantaggio dei silenzi, dei dettagli visivi presenti sui volti dei personaggi durante i dialoghi e, soprattutto, a lasciando loro una libertà tale che essi sembrano vivere davanti ai nostri occhi.
Egli non si limita alla facile ricerca di un consenso degli spettatori, attraverso la critica dell’istituzione familiare borghese americana o al dare loro in pasto un personaggio cattivo da odiare e quindi, come naturale conseguenza, uno da amare a prescindere. Gente Comune osserva ed analizza con profonda amarezza, ma anche garbo, il modo in cui ogni singolo membro dei Jarrett cercherà di superare la tragedia subita:
la lotta contro gli istinti suicidi causati dal senso di colpa e la ricerca della normalità di Conrad attraverso l’inizio di un percorso di terapia psicologica, che lo porterà ad istaurare un rapporto di profonda amicizia con il dott. Berger ( Judd Hirsch); il commovente impegno di suo padre nel cercare di tenere in piedi una famiglia divenuta oramai una recita vivente e l’annichilimento di sua madre, che con suo figlio ha seppellito anche la sua umanità e amore, diventando letteralmente un automa priva di tatto, a cui importa solo delle apparenze.
Un film che dovrebbe essere riscoperto e ricordato non per aver “rubato” quattro Oscar ( Film, Regia, attore non protagonista e sceneggiatura non originale) a capolavori come Toro Scatenato di Scorsese e The elephant man di Lynch, ma per il suo sguardo delicato nei confronti della necessità di salvaguardare la salute mentale ed per il suo struggente cinismo nel descrivere l’evoluzione dei rapporti umani tra familiari colpiti da una tragedia.
Milagro (1988)
Christopher Walken in Milagro (1988)
Può un semplice campo di fagioli diventare simbolo di resistenza e lotta contro il progresso? Non se lo chiede sicuramente Joe Mondragon ( Chick Vennera) quando irriga accidentalmente con acqua non “propria” il suo campo in un impeto di rabbia e, invece di smettere, decide di coltivare fagioli. Ne conseguirà una guerra contro un gruppo di costruttori senza scrupoli che, con la scusa del progresso, vogliono cacciare i gli abitanti di Milagro, per costruire un imponente villaggio turistico.
Come accade nel cinema civile e impegnato che lo contraddistinguerà negli anni successivi, lo sguardo di Robert Redford analizza l’evoluzione della vicenda, concentrandosi su come i residenti di Milagro concepiscano il concetto di progresso e sulle contraddizioni che caratterizzano la comunità , donando al film un realismo molto umano e pregno di tematiche attualissime, come il diritto all’acqua, le relazioni torbide ed interessate tra le imprese e il governo.
Molto azzeccate le scelte di Redford di scegliere un cast quasi totalmente latino ed anche sconosciuto al grande pubblico e di relegare i grandi nomi ( Christopher Walken e Melanie Griffith) a ruoli secondari, e collocati sullo sfondo della storia, per impedire che l’intera vicenda avesse un eroe di nome protagonista assoluto, che è giusto che spetti alla comunità nella sua totale interezza.
Seppur con qualche imperfezione, un film da riscoprire.
Quiz Show ( 1994)
Ralph Fiennes in Quiz Show (1994)
Partendo dal vero scandalo che colpì lo show Twenty-One, Quiz Show è il film, perfino più di Gente Comune, che maggiormente rispecchia il wonderkid nel cinema di Robert Redford, sempre vittima di demoni personali e che alla fine, inevitabilmente, dovrà effettuare una scelta di carattere etico e morale. Partendo da un celebre scandalo del piccolo schermo Come fece nel suo esordio, Robert Redford lascia pieno campo libero ad un cast di stelle (un pittoresco e coenianoJohn Turturro e un eccezionale Ralph Fiennes) per scavare dietro la patina falsa che cela il lato oscuro dello show business.
Nel mostrare la manipolazione dei quiz televisivi negli anni ’50 Robert Redford non effettua solo una semplice riflessione sull’etica e lo scarto, netto sulla carta ma in concreto labile, specialmente oggi in piena era digitale, tra realtà ed apparenza, ma constata apertamente che a causa delle scelte operate dai dirigenti di Twenty-One, si è consumata la definitiva perdita dell’ innocenza dello spettatore su ciò che ogni giorno guardava e che credeva fosse il lato migliore del suo stile di vita.
Se prima i quiz premiavano la conoscenza e rendevano onore e fama ad un intellettuale per il lavoro speso per istruirsi, creando anche un messaggio formativo per cui “se studi, avrai successo“, ora si è scoperto che il merito è solo un falso mito ( basti vedere come sono scelti i concorrenti) e che il campione del gioco sarà sulla cresta dell’onda fino a quando avrà un ampio indice di ascolto.
Concetto tanto amaro quanto attuale.
L’uomo che sussurrava ai Cavalli (1998)
Robert Redford e Scarlett Johansson in L’uomo che sussurrava ai cavalli (1998);
Tratto dall’ omonimo best-seller di Nicolas Evans, la storia ruota attorno a Grace MacLean (interpretata da Scarlett Johansson, di recente entrata nel franchise di Jurassic World), una ragazzina newyorkese rimasta gravemente mutilata, a causa di un terribile incidente durante un’escursione a cavallo. Anche il suo cavallo Pilgrim è rimasto ferito e per il trauma occorso, diventa inavvicinabile, . A quel punto la madre di Grace, Annie ( Kristin Scott Thomas), per salvare sua figlia e il cavallo, intraprenderà un lungo viaggio per portarli nel Montana presso il ranch di Tom Booker ( Robert Redford), un misterioso cowboy con il dono di aiutare i cavalli a superare traumi di ogni sorta.
Nonostante il film non presenti contatti con il Robert Redford politicamente impegnato, la pellicola ritrae perfettamente la metafora Redfordiana del wonderkid in crisi di identità ( non per una questione Etico/morale/politica, ma in questo caso per un trauma, sia fisico che emotivo) e che deve intraprendere un percorso di lotta per rinascere.
Il cineasta americano, per la prima volta alle prese con la direzione di se stesso, effettua una rilettura per famiglie del personaggio di Jeremiah Johnson, da lui stesso interpretato in Corvo rosso non avrai il mio scalpo, e si accosta al Clint Eastwood de I ponti di Madison County, ed esplora temi come la guarigione, la solitudine, la connessione tra uomini e animali e il silenzioso potere della natura e, soprattutto, della frontiera americana dell’Occidente, oramai in via d’estinzione.
La sua capacità di trattare argomenti universali con una sensibilità profonda e visivamente affascinante lo rende un’opera cinematografica che omaggia la forza della natura e alla capacità di guarigione che risiede in ciascuno di noi.
La Leggenda di Bagger Vance (2000)
Matt Damon e Will Smith in La leggenda di Bagger Vance (2000)
La ricerca della rinascita personale e della riscoperta del talento si sposta dalle praterie del Montana alla città di Savannah. Questa volta non ci sono cavalli e ranch ma automobili d’epoca e campi da golf. Dopo essere sopravvissuto alla Prima Guerra Mondiale, Rannulph Junuh ( Matt Damon), ex enfant prodige del golf si è lasciato andare, cadendo nella spirale dell’alcolismo.
Quando il suo vecchio amico Hardy Greaves (interpretato da Jack Lemmon, alla sua ultima apparizione in assoluto) lo convince a partecipare a un torneo di golf che avrà ripercussioni importanti per la sua città e per le sorti della sua ex fidanzata (Charlize Theron), Junuh incontra il misterioso e saggio Bagger Vance ( Will Smith), che diventerà il suo caddie e che con un approccio tutt’altro che convenzionale, lo aiuterà a ritrovare il suo swing e, di conseguenza, se stesso..
La maggior parte dei migliori film sportivi non parlano mai prettamente solo di sport. Anzi, spesso tendono a trattare l’aspetto dei punteggi e delle regole come metafore della vita dei personaggi, perchè possano evolversi attraverso la sfida. E questa pellicola non fa eccezione. Il torneo di golf in questo caso è un vero e proprio viaggio a tappe dove è fondamentale non la vittoria, ma il modo in cui ci si comporta sul campo. Anche perchè citando Bagger:
“il golf è uno sport che non può essere vinto ma soltanto giocato”.
Sugli scudi la fotografia del Dop Michael Ballhaus che fa sembrare il campo verde sconfinato e lo spettatore triste, perchè la pallina deve cadere e ogni partita debba finire.
Leoni per Agnelli (2007)
Robert Redford in Leoni per agnelli (2007); Credits: IMDB
Tre storie portate avanti contemporaneamente su tre piani diversi. Un colloquio tra un professore ( Stephen Malley, interpretato da Robert Redford) e un alunno brillante ma svogliato ( Andrew Garfield); una riunione informale tra una reporter ( Meryl Streep) e un senatore (Tom Cruise) sulla bontà di una strategia militare da adottare in Medio Oriente; una missione operativa in Afghanistan che coinvolge due ex studenti, di nome Ernest e Arian, di Malley.
Probabilmente il suo film più urgente. Talmente tanto da sfiorare il didascalismo, per quanto sembri più predicare una tesi che raccontare una storia. Eppure, con il suo solito stile sobrio e controllato, volto a prediligere un montaggio serrato il giusto, ma sempre al servizio del dialogo, Robert Redford fornisce più punti di vista allo spettatore nel riflettere sulla politica americana. Interna ed esterna.
Robert Redford contesta l’utilità dell’intervento militare in Afghanistan, analizzato e dibattuto attraverso l’intervista tra la anziana veterana e il giovane rampante senatore, diventa l’occasione di un vero e proprio confronto generazionale. Da un lato vi è un senatore, simbolo di un America che deve mostrare i muscoli per non perdere faccia e controllo davanti la comunità internazionale. Costi quel che costi.
Dall’altro lato la veterana reporter (che come il Prof. Malley, ha vissuto il periodo della Guerra del Vietnam) che contesta alle fondamenta il senso di certe scelte politiche, che in passato non hanno pagato, ed anche di come la stampa stessa, quindi lei, abbiano avuto un ruolo importante nel vendere la giustizia di una guerra al popolo americano, venendo meno ad un dovere civico e morale.
Contemporaneamente, ed in altro contesto, è stavolta lui stesso a confrontarsi con il personaggio di Todd, simbolo di una generazione con potenzialità ma divenuta apatica a causa dei continui errori della politica, sia interna che esterna, e per questo sempre più propensa a godersi la vita e non a lottare per cambiare le cose.
Nel rapporto tra mentore e allievo, Robert Redford tratteggia un personaggio che rappresenta l’esatto opposto del Salieri di Amadeus, ovvero quello di un uomo che ha il dovere di stimolare il wonderkid perchè possa fare la differenza su vasta scala e perchè comprenda, parafrasando Spiderman, che ” da un grande potere, derivano grandi responsabilità “. E se il cambiamento non riesce, almeno si è provato a far qualcosa.
Come sempre ha cercato di fare Robert Redford in oltre 60 anni di cinema, in qualità di produttore, attore, regista e attivista. Non ha mai cercato il successo facile, e spesso i suoi film da regista non hanno avuto lo stesso impatto commerciale delle sue interpretazioni da attore, ma sicuramente hanno sempre cercato di raccontare il proprio paese non con meri slogan , ma con uno sguardo partecipe e interrogativo, fatto di domande dirette e scomode, e lasciando sempre al pubblico la scelta di come vivere al fine dell’esperienza in sala.
Un cinema silenzioso ma fermo. Fatto per esistere e resistere. Sempre e comunque.